SIMPOSIO L’AVVENTUROSO VIAGGIO DELL’AMILOIDOSI CARDIACA DA TRANSTIRETINA DALLA DIAGNOSI AL TRATTAMENTO

di Nicolina Conti
Dal sospetto clinico alla diagnosi di amiloidosi cardiaca.

Nella Sala del Borgo si è tenuto oggi questo interessante simposio sull’amiloidosi da transtiretina (TTR), moderato dal Dott. Andrea Di Lenarda e dal Dott. Fabrizio Oliva. Per prima ha preso la parola la Dott.ssa Chimenti, che ha presentato il recente “clinical primer” ANMCO, un documento che si prefigge il compito di aiutare il cardiologo clinico ad indirizzare correttamente i pazienti ai Centri di primo livello per il trattamento dell’amiloidosi. Il sospetto clinico di amiloidosi cardiaca è il momento critico della diagnosi. Alcuni pazienti addirittura ricevono la corretta diagnosi dopo più di tre anni. È cruciale identificare le red flags per capire dove si nasconde la malattia. Un importante red flag è l’anamnesi di tunnel carpale bilaterale. Lo Studio CACTuS ne ha mostrato una prevalenza di circa 8% tra i pazienti con diagnosi di amiloidosi. Altre red flags diagnostiche che è bene ricordare sono: la neuropatia periferica, la stenosi del canale lombare, la rottura del capo lungo del bicipite, il dito a scatto. Spesso i disturbi autonomici vengono confusi con la polineuropatia diabetica in questi pazienti che sono spesso anziani. Altri elementi strumentali suggestivi sono la presenza di alterazioni tipiche della cinetica del gadolinio alla risonanza magnetica cardiaca, la riduzione del global longitudinal strain all’ecocardiogramma con tipico pattern ad “apical sparing” ed alcune alterazioni elettrocardiografiche come la pseudonecrosi o la riduzione del rapporto fra l’ampiezza del QRS e la massa miocardica. Interessante il dato che il 10% dei pazienti che vengono sottoposti a TAVI/sostituzione valvolare aortica per stenosi valvolare risultano poi affetti da amiloidosi. Ovviamente, l’unione di più red flags aumenta la sensibilità diagnostica. Le ultime raccomandazioni ESC danno indicazione ad iniziare l’iter diagnostico per amiloidosi cardiaca se lo spessore del setto interventricolare è > 12 mm e vi è presenza di almeno un altra red flag. Inoltre, uno studio retrospettivo pubblicato su Circulation che ha seguito nel tempo pazienti diagnosticati in età precoce ha dimostrato un miglioramento della prognosi a lungo termine. La scintigrafia ossea oggi è importante per evitare l’accertamento tissutale. Vi sono però dei limiti insiti nella metodica: ad esempio, la mutazione phe64leu non capta e può dare falsi negativi; dall’altro lato la scintigrafia può dare anche falsi positivi. Esistono quindi delle situazioni in cui la biopsia deve essere fatta per chiarificare la diagnosi: ad esempio in assenza di componente monoclonale e di fissazione del radiofarmaco alla scintigrafia, se il sospetto diagnostico di amiloidosi cardiaca è alto; oppure nel caso di scintigrafia positiva (Perugini score grado 2 o grado 3) con discrasia plasmacellulare. La proteina amiloide all’esame istologico assume la tipica birifrangenza verde mela dopo colorazione con rosso-Congo al microscopio a luce polarizzata. Una volta evidenziata la presenza di amiloide è fondamentale caratterizzare la proteina contenuta nei depositi (analisi di immunoistochimica e/o proteomica). Una nuova prospettiva diagnostica è rappresentata dalla PET con florbentabene, che sembra potrà avere un ruolo promettente per differenziare le forme AL e TTR sulla base della differenza di captazione del tracciante. Infine, è importante sottolineare che il test genetico è da fare sempre anche nei pazienti anziani: infatti fino al 20% dei pazienti ultrasettantenni con diagnosi di amiloidosi da transtiretina ha una mutazione. In seguito, è intervenuto il dott. Musca, che ha illustrato la classificazione e la diagnosi differenziale dell’amiloidosi. Le ultime evidenze hanno messo in luce che si tratta di una patologia sotto diagnosticata e dal decorso rapidamente progressivo, per cui si rende necessaria una diagnosi tempestiva al fine di poter intraprendere un trattamento efficace il più precocemente possibile. La moderna epidemiologia di questa malattia vede un incremento importante di prevalenza e incidenza soprattutto della forma wild tipe. Questo perché si è imparato a conoscere e quindi a cercare questa malattia: infatti, si sospetta ciò che si conosce. Vi sono 9 proteine che si possono accumulare, anche se nel 98% dei casi si tratta di immunoglobuline e transtiretina. Conosciamo oggi più di 130 varianti amiloidogeniche della TTR, con mutazioni che provocano manifestazioni più neurologiche o cardiologiche o miste. Si tratta infatti di una malattia che provoca quadri clinici eterogenei con overlapping. L’interessamento cardiaco è comunque il vero determinante della prognosi. Importante anche la diagnosi differenziale con le fenocopie per la rilevanza prognostica. L’amiloidosi ha infatti la prognosi peggiore in quanto unisce anche un meccanismo di tossicità diretta delle miofibrille che provoca elevato rilascio di NTproBNP e troponina che sono utili strumenti di monitoraggio dell’andamento clinico e della risposta alla terapia. Infine, il dott. Longhi ha illustrato le nuove opzioni di trattamento di questa patologia. Negli ultimi dieci anni sono emerse infatti molte nuove opzioni terapeutiche. La terapia storica dell’amiloidosi da transtiretina mutata era il trapianto di fegato, organo che produce il 95% della proteina alterata. In realtà il follow-up a lungo termine dei pazienti sottoposti a trapianto di fegato ha mostrato un risultato non sodisfacente a 20 anni, soprattutto per le mutazioni non val30met. Esiste infatti un effetto nido con richiamo di TTR normale anche dopo il trapianto. Sono state pertanto trovate delle strategie farmacologiche differenti:

– soppressione della sintesi epatica di TTR;

– stabilizzazione dei tetrameri di TRR;

– rimozione della TTR misfolded dagli organi.

Il Tafamidis è la principale arma farmacologica in nostro possesso, che agisce con un meccanismo stabilizzatore. È stata studiata nel trial ATTRact nei pazienti con TTR wt e mutata, documentando una riduzione della mortalità del 30% rispetto al placebo, effetti che si evidenziano dopo 18 mesi di terapia. Il farmaco si è dimostrato estremamente sicuro, non da effetti collaterali e alti dosaggi risultano ancora più efficaci. Non vi è attualmente un’età limite al trattamento (l’età media dei pazienti arruolati nel trial era di 74 +-5 anni). Il Tafamidis attualmente è l’unico farmaco approvato per l’amiloidosi cardiaca (solo per classe funzionale NYHA I o II). Il blocco della sintesi di TTR a livello epatico può essere raggiunto interferendo o bloccando l’RNA messaggero (mRNA), evitando perciò che questo venga tradotto in proteina all’interno dei ribosomi. Tra gli agenti utilizzati per questa strategia ricordiamo gli small interfering RNA (siRNA). Il patisiran è stato testato nel 2018 nell’APOLLO trial dimostrando una minor progressione della componente neurologica, addirittura fino a regressione, e in una sottoanalisi anche una minore progressione della cardiopatia. Ciò è stato confermato nell’APOLLO B, condotto nei pazienti con componente cardiologica prevalente, in cui si osservava una minor riduzione della capacità funzionale al test del cammino e anche una interessante riduzione dello score Perugini. Tuttavia, il trial non ha dimostrato un impatto prognostico su mortalità e ospedalizzazione. Il vutrisiran è una molecola potenziata con somministrazione sottocute ogni 3 mesi. Una analisi dello studio Helios nel sottogruppo di pazienti con cardiopatia ha mostrato la stabilizzazione della progressione della malattia; pertanto, è già in corso lo studio Helios B di cui è appena terminato l’arruolamento. L’Inotersen viene somministrato sc una volta alla settimana con risultati neurologici positivi. Sono state però segnalate reazioni avverse anche gravi come glomerulonefriti e piastrinopenie; perciò, è attualmente in studio una molecola analoga, eplontersen (studio CARDIO-TTRansform). Si tratta di un nuovo siRNA più potente e selettivo, di cui basta una somministrazione all’anno e che riduce del 90% la concentrazione ematica della TTR. Infine, attendiamo i risultati dello studio di fase III che si basa sull’impiego di CRISPR/Cas9, una sorta di forbice molecolare in grado di tagliare un DNA bersaglio. In conclusione, in base al sottotipo e all’interessamento d’organo cambia il trattamento. È comunque cruciale la personalizzazione della terapia.

Nicolina Conti