La sessione si è aperta con la relazione del Dottor Massimo Imazio a tema “Il rischio residuo infiammatorio: ruolo della colchicina”.
È stato affrontato il tema dell’infiammazione, un’entità nuova che non si studiava fino a qualche anno fa ma che può essere un target di terapia nella patologia aterosclerotica cardiovascolare. L’infiammazione è una risposta importante a qualunque tipo di insulto. Se si spegne l’infiammazione essa accende “un incendio ancora più grosso” ossia l’autoimmunità con ricadute ancora più importanti. L’ infiammazione è un complesso di proteine citoplasmatiche che sotto l’effetto di particolari circostanze si assembla grazie ai microtubuli. L’attivazione dell’infiammazione porta alla liberazione di una serie di interleuchine di cui la principale e la IL1.
La colchicina deriva dalle piante, il suo fiore è simile al fiore dello zafferano ed è nota da migliaia di anni. Il suo primo impego è la febbre mediterranea familiare. In campo cardiovascolare abbiamo iniziato ad utilizzarla nella pericardite. È stato dimostrato come anche nelle pericarditi con interessamento miocardico l’utilizzo di colchicina riduca i livelli di troponina. La colchicina è un farmaco lipofilo, entra in tutte le cellule ma in particolare nei neutrofili. Blocca l’aggregazione dei microtubuli e quindi blocca l’attivazione dell’infiammazione. Interferisce con l’assemblaggio delle selectine, fondamentali nel processo di aggregazione piastrinica. Agisce quindi sulla patologia cardiovascolari attraverso diversi meccanismi. Potrebbe essere utile anche nella Fa innescata dall’infiammazione.
Lo studio CANTOS ha usato un farmaco selettivo per la IL1B e ne sono state testate tre dosi. Dosi crescenti del farmaco riducevano i valori di proteina C reattiva (PCR) senza ridurre le LDL e ha ridotto l’endpoint primario. Il metotrexato, che agisce sui linfociti, non ha mostrato risultati promettenti. Ciò non stupisce perché il nostro target sono i neutrofili. La colchicina riduce del 25% il tasso di MACE, come le statine, ma non ha ridotto la mortalità totale.
Sulla base delle evidenze le Linee Guida ESC 2021 hanno valutato la colchicina, ma timidamente, ponendo solo un’indicazione IIb nonostante e molte evidenze presenti. Gli americani “sono stati più coraggiosi” ed hanno approvato la dose di 0.5 mg/die per la prevenzione degli eventi cardiovascolari. È stato proposto il suo impiago nelle sindromi coronariche acute. Il suo impiego deve essere indipendente dai valori di PCR.
A seguire la relazione del Dottor Leonardo De Luca sul rischio residuo lipidico al di là del colesterolo LDL, con focus sul rischio correlato ai trigliceridi. Valori di trigliceridi superiori a 150 mg/dL rappresentano infatti un indicatore di rischio residuo. Anche nei pazienti con LDL a target coloro che presentano ipertrigliceridemia hanno un rischio cardiovascolare maggiore. Al di là dei meccanismi fisiopatologici, i pazienti con ipertrigliceridemia presentano generalmente anche una maggiore concentrazione di LDL ossidate, e dunque più aterogene.
La domanda che ci dobbiamo dunque porre è se l’ipertrigliceridemia sia considerabile un marcatore di patologia oppure un target di terapia?
A tal proposito molti farmaci hanno fallito nel dimostrare una riduzione degli eventi cardiovascolari. Ciò è probabilmente ascrivibile al fatto che gli omega 3 sono una classe piuttosto eterogenea con caratteristiche differenti. Alcuni di loro (i DHA) causano un aumento delle LDL, al contrario gli EPA purificati ne causano un abbassamento. Nel “JELIS” trial (Japan EPA Lipid Intervention Study), ad esempio, su 18.000 pazienti trattati solo con EPA purificati è stata dimostrata una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari. Stessi risultati sono emersi dallo studio “RESPECT-EPA”. Nel “REDUCE-IT”, invece, sempre con EPA purificati (icosapentetil), in cui i pazienti venivano randomizzati a 4 gr/die vs placebo, è stata documentata una riduzione dell’endpoint primario composito e della mortalità cardiovascolare.
Tuttavia, il beneficio cardiovascolare non dipende dall’entità della riduzione dei trigliceridi e, conseguentemente, risulta difficile individuare un target/valore soglia. Ritornando dunque alla domanda precedente posta possiamo affermare che probabilmente, più che un target, i trigliceridi rappresentano un marker di malattia. Sono state infine pubblicate diverse sotto-analisi dello studio “REDUCE-IT” tutte concordi nel confermare la riduzione degli eventi cardiovascolari.
Alla luce dei dati disponibili le Linee Guida vigenti in materia raccomandano l’uso dell’icosapentetil nei pazienti ad elevato rischio cardiovascolare in prevenzione secondaria.
A conclusione della sessione, il Dottor Claudio Borghi ha presentato una relazione partendo da una domanda: l’acido urico contribuisce al rischio residuo?
Per rischio residuo si intende un rischio che permane dopo il trattamento ottimale di tutti i fattori di rischio. L’uricemia è sicuramente un attore importante per la valutazione del rischio cardiovascolare residuo. I pazienti gottosi in particolare hanno un aumento del rischio per tutte le patologie cardiovascolari. Tutte le patologie che attivano l’infiammazione incidono sul rischio cardiovascolare. L’acido urico agisce su molti attori che giocano un ruolo nel determinare il rischio cardiovascolare: aumenta la pressione arteriosa, il rischio di diabete, il rischio di malattia renale, di scompenso, di fibrillazione atriale e di mattia aterosclerotica. Uno studio cinese ha l’importante vantaggio di aver studiato una popolazione ampia ed unica nel suo genere composta da pazienti senza altri fattori di rischio cardiovascolare se non l’ipeuricemia. Valori di uricemia compresi tra 4.5 e 5.5 mg/dL sono in grado di aumentare significativamente il rischio cardiovascolare. A conferma di ciò sta l’evidenza che all’interno delle placche che si complicano vi sia una maggiore concentrazione di acido urico. L’inserimento dei valori di uricemia nell’equazione di Framingham causa una riclassificazione dei profili di rischio. Una sub-analisi dello studio “CANTOS” ha poi dimostrato come, nonostante l’aggiustamento di tutti i fattori di rischio, l’iperuricemia mantiene un ruolo sul rischio cardiovascolare. In popolazioni in cui tutti i fattori sono stati corretti la riduzione dell’uricemia riduce il numero di eventi cardiovascolari. Sarebbe importante valutare quali pazienti possono trarre un maggiore vantaggio dalla riduzione dell’uricemia ossia quelli in cui l’iperuricemia ha un ruolo più importante nel determinare il rischio. Sembra che i pazienti con normale creatinina e in cui l’iperuricemia dipende dalla iperproduzione di acido urico siano quelli che traggono maggiore beneficio dall’abbassamento dei valori di acido urico. La mortalità è maggiore nei pazienti con un maggiore rapporto creatinina/acido urico e la differenza non è più significativa nei pazienti trattati con inibitori della xantina ossidasi. La popolazione che può trarre beneficio della riduzione dell’acido urico è circa il 35% degli iperuricemici.
Una annotazione importante è che gli inibitori SGLT2 riducono l’acido urico e questo potrebbe essere uno dei meccanismi alla base del loro beneficio globale. Si stima infatti che circa ¼ della riduzione del rischio legato alla somministrazione di SGLT2 possa essere associato proprio alla riduzione dell’acido urico.
