MAIN SESSION
FIBRILLAZIONE ATRIALE: UPDATE 2022

di Nicolina Conti

Nella mattina della seconda giornata del Congresso ANMCO si è svolta questa rilevante Sessione di aggiornamento sulla Fibrillazione Atriale (FA), brillantemente moderata dal Dott. Alfredo Di Nardo e dal Dott. Cosimo Napoletano.

I lavori sono stati aperti dal Dott. Giuseppe Di Pasquale che ha parlato di cardiomiopatia atriale. L’interesse per questa entità è in aumento negli ultimi anni con la produzione di molte pubblicazioni. Il concetto di cardiomiopatia atriale si è sviluppato a patire dai primi report degli anni ‘70 fino ad arrivare al documento di consenso ESC che proponeva una classificazione istologica e fisiopatologica in 4 classi (1: cardiomiocita-dipendente, 2: fibroblasti-dipendente, 3: alterazioni miste, 4: deposito interstiziale di sostanze non collagenose). La diagnosi si basa su tecniche di imaging multimodale: ecocardiogramma (es.: strain atriale), TC, RM e mapping elettroanatomico. Ma la metodica più immediata è l’ECG: un importante studio di Bayes De La Luna ha dimostrato infatti che il blocco interatriale avanzato (definito da allungamento del PR + onda P bimodale) è un marker surrogato di fibrosi e da studi di registro ne è emersa l’associazione con una probabilità significativamente maggiore di FA e di stroke anche in assenza di FA. Inoltre, per gradi crescenti di fibrosi atriale alla RM si ha un maggior rischio di recidive di FA a 1 anno dopo ablazione transcatetere, come emerso dal DECAAF trial. Sta emergendo la nuova ipotesi che la cardiomiopatia atriale sia strettamente correlata al rischio di stroke: in questo scenario la FA diventerebbe un risk marker piuttosto che un risk factor. A sostegno di ciò sono stati citati lo studio ASSERT, in cui in pazienti portatori di device non è emersa correlazione tra FA subclinica e stroke, e lo studio IMPACT, che ne ha confermato i risultati. Si tratta dell’annosa questione degli ESUS, ovvero embolic stroke of undetermined source: potrebbero essere sottesi da una cardiomiopatia atriale isolata? Modello convincente a sostegno di questa ipotesi è l’amiloidosi cardiaca, in cui si possono sviluppare trombi atriali senza FA e vi sono studi in corso sulla necessità di scoagulazione se l’aritmia non è documentata. I risvolti terapeutici possono essere diversi: ad esempio, se venisse dimostrata una consistente quota di fibrosi all’imaging si potrebbe optare per la non opportunità di sottoporre il paziente ad ablazione di FA; vi è poi l’incognita della gestione della terapia anticoagulante. Siamo quindi di fronte al sorgere di una nuova filosofia che ci deve portare a modificare la nostra pratica clinica.

La Dott.ssa Giuseppina Maura Francese ha invece trattato un argomento di nicchia, ovvero il rapporto tra FA e sport. È noto che fra i fattori di rischio per FA ci sono sia l’inattività fisica che l’intensa attività fisica, con andamento della curva a J. L’ipotesi in letteratura è che la FA sia più frequente negli atleti che praticano sport ad alto impegno cardiovascolare, soprattutto man mano che l’età avanza. Le linee guida italiane sono chiare: l’idoneità sportiva si può dare ad atleti con FA parossistica/persistente se non hanno cardiomiopatia sottostante, se viene rimossa la causa scatenante (farmaci, alcol), se è assente un chiaro rapporto causa-effetto con lo sport, se non ha sintomi né blocchi. Invece, nel caso la FA sia permanente l’idoneità è negata per gli sport ad alto impegno CV, ma è concessa per sport a basso impegno se assenti cardiomiopatia o sintomi o blocchi. La gestione terapeutica è complessa: si possono usare farmaci di classe Ic o III, che però riducono la performance CV e muscolare e costituiscono in alcuni casi sostanze dopanti. Nel caso degli Ic vi è rischio di conversione dell’FA in flutter con rapporto 1:1, allargamento del QRS, sincope e shock; si potrebbero associare BB che però sono mal tollerati in questi pazienti già bradicardici al basale. La fa quindi da padrona l’ablazione e dopo la procedura possono riottenere l’idoneità dopo 3 mesi se la procedura è efficace e non vi sono segni di cardiomiopatia.

Il fondamentale tema della prevenzione delle recidive di FA è stato affrontato dal Dott. Marco Corda, che ha iniziato la presentazione sottolineando che nelle ultime linee guida l’indicazione al controllo del ritmo è in classe IA con l’obiettivo di controllare i sintomi e migliorare la qualità di vita. Questo approccio va considerato sicuramente nei pazienti giovani, al primo episodio aritmico, con tachicardiomiopatie, atrio non dilatato, poche comorbilità, difficile controllo della frequenza o FA causata da evento acuto intercorrente. Le linee guida stressano il concetto che per prevenire le recidive bisogna ampliare l’attenzione all’intero panorama di fattori di rischio, perché le comorbilità impattano in maniera consistente. Vi è infatti una raccomandazione in classe IIa su contenimento del peso, riduzione del consumo di alcol e caffeina e moderata attività fisica. Questo si basa anche sui risultati dell’ARREST-AF, studio di coorte condotto in pazienti pre-ablazione obesi e con almeno un fattore di rischio CV, che ha mostrato che un regime di stretto controllo delle comorbilità garantisce risultati più duraturi dopo l’ablazione. Anche il DECLARE-TIMI 58 trial ha mostrato meno recidive di FA in pazienti diabetici e con numerosi fattori di rischio trattati con dapaglifozin. Infine, il timing: l’EAST-AFNET 4 trial ha provato che un controllo del ritmo precoce (inteso entro 1 anno dalla insorgenza dell’aritmia, sia con ablazione che farmaci) dà un vantaggio significativo su endpoint forti come morte e stroke. In ogni caso prima di intraprendere una terapia sono da considerare sintomi, preferenze del paziente e probabilità di effetti avversi per minimizzare il rischio proaritmico e tossico e ottenere i migliori risultati.

A questo punto è intervenuto il Dott. Domenico Gabrielli, Past President ANMCO, per parlare di nuovi anticoagulanti orali. La prima domanda è stata se la farmacologia clinica ci possa guidare nella scelta del NAO. L’obiettivo è la personalizzazione delle cure, considerando funzione renale, rischio emorragico e interazioni farmacologiche. Una popolazione particolare da considerare sono gli anziani. Una recente review pubblicata su JACC nel 2022 ha evidenziato che i pazienti ultra75enni dovrebbero avere 295 cadute all’anno per bilanciare il beneficio della scoagulazione con gli eventi avversi emorragici. È tuttavia un dato di fatto che l’uso dei NAO sia inversamente proporzionale all’età. Una fondamentale metanalisi (Kato 2019) non ha mostrato alcuna interazione tra età ed efficacia, a fronte di una riduzione del rischio emorragico nel caso di apixaban ed edoxaban vs VKA; veniva sottolineato come l’età di per sé non dovrebbe essere un criterio di riduzione delle dosi. Nella pratica clinica, tuttavia, un rischio concreto nel paziente anziano è il sottodosaggio proprio per paura del rischio emorragico. Importante in questa popolazione è la funzionalità renale, di per sé fluttuante e potenzialmente alterabile anche da parte di farmaci ampiamente usati. Fondamentali sono quindi valutazioni seriate, tanto più ravvicinate quanto più elevato è il rischio e compromessa la funzione renale. L’ANMCO si è preoccupata molto dell’appropriatezza: dosaggi non adeguati hanno impatto sulla prognosi! Le questioni ancora aperte rimangono molte: utilizzo nel grande anziano, obesità/sottopeso, protesi biologiche, IRC terminale, trombosi endoventricolare sinistra, AIRE, immediato post stroke, neoplasie.

A seguire il Dott. Massimo Grimaldi ha fatto il punto sull’ablazione. Prima di tutto è stata affrontata la questione dei pazienti con scompenso cardiaco a frazione d’eiezione ridotta. In questo tipo di pazienti lo studio AFFIRM ha dimostrato che il controllo del ritmo è preferibile al controllo della frequenza. Un altro importante studio del gruppo di Haissaguerre ha mostrato che l’ablazione migliora non solo la capacità di esercizio e la qualità vita, ma anche l’FE con guadagno maggiore nel gruppo in cui in origine la FVM era elevata. Dal confronto nello studio AATAC l’ablazione è risultata più efficace dell’amiodarone nel ridurre le recidive di FA, ma con grossa variabilità del successo procedurale tra i vari centri e una popolazione in cui l’FA era di recente insorgenza (pochi mesi). Il dato molto forte è stato che l’ablazione riduceva anche ospedalizzazioni e mortalità. Questo dato è stato poi confermato dallo studio CASTLE-AF: in una popolazione molto simile si è ottenuto un risultato importante su ospedalizzazioni e morte. Per quanto riguarda le tecniche ablative c’è gran parlare a proposito del confronto tra crioablazione e radiofrequenza: dalla letteratura non emergono grosse differenze. Entrambe le metodiche riducono enormemente il tempo in aritmia. Purtroppo, vi è una quota non trascurabile di eventi avversi che però gravano anche sulla terapia farmacologica. Tra le nuove tecniche presentate una vera rivoluzione, l’electroporation: energie altissime erogate in nanosecondi che creano microperforazioni delle membrane con morte cellulare da fuoriuscita di citoplasma. È una procedura tessuto specifica e che quindi evita complicanze su esofago e nervo vago, in più non sviluppa calore. Attendiamo con fermento i risultati del inspIRE study, che uscirà a breve. Si può fare di meglio? Novità assoluta è la possibilità di utilizzo di radioterapia. È in corso uno studio di safety su pazienti over 70 (popolazione scelta pensando al possibile rischio oncologico a distanza).

La conclusione della sessione è stata affidata al dott. Pasquale Caldarola, che ha dato rilievo anche agli aspetti di carattere organizzativo. È necessario un PDTA condiviso tra ospedale e territorio per evitare una malgestione delle risorse e determinare percorsi di cura omogenei. È stato descritto il PDTA della Regione Puglia, modello di appropriatezza organizzativa e terapeutica. È fondamentale definire i compiti e la matrice di responsabilità nei vari setting e momenti, facilitare la comunicazione tra i vari attori, individuare indicatori di processo, appropriatezza, qualità ed esito prevedendo step consecutivi e prestando la massima attenzione al passaggio tra i vari sottopercorsi. Il centro del percorso è sempre il paziente.

 

Nicolina Conti