20 anni di TAVI tra certezze e dubbi
Carlo di Mario presenta lo stato attuale dell’arte 22 anni dopo la prima sostituzione valvolare aortica per via percutanea (2002) in un paziente inoperabile ad uso “compassionevole” da parte del compianto Alain Cribier. Il solo criterio d’età (la fatidica soglia dei 75 anni) non dovrebbe essere considerato durante l’Heart Team come criterio “apodittico”: infatti l’età di impiego della TAVI si sta anticipando progressivamente per chiare evidenze favorevoli da multipli trial randomizzati in termini di morbi/mortalità e rapido recupero. Ci si chiede allora in modo provocatorio chi nel 2024 potrebbe giovarsi della sostituzione valvolare per via chirurgica? Lo “zoccolo duro” delle anatomie sfavorevoli con basso rischio chirurgico, ovvero le bicuspidi con calcificazioni estreme di lembi e rafe, concomitante dilatazione dell’aorta ascendente o patologia mitralica/coronarica di interesse chirurgico, anelli particolarmente grandi, voluminose calcificazioni del tratto d’efflusso. Il problema dell’utilizzo nei pazienti più giovani non è tanto la “durability” che appare comparabile se non migliore rispetto alle protesi chirurgiche, quanto il rischio che un nuovo impianto 10-15 anni dopo il deterioramento strutturale valvolare (SVD) comprometta l’accesso alle coronarie specie per alcune protesi con anatomia sfavorevole della radice aortica o quando non si è rispettato l’allineamento con gli osti. Vedremo i risultati in un futuro molto prossimo dell’iniziale utilizzo clinico di sistemi che “recidono” i lembi delle vecchie protesi, in modo da ovviare a queste difficoltà. Le protesi sovranulari autoespandibili offrono un vantaggio emodinamico rispetto alle pallone-espandibili al prezzo di un modesto incremento della necessità di pacing e di aumentata complessità al momento della sostituzione. Attendiamo con entusiasmo i prossimi trial che a breve ci indicheranno l’eventuale opportunità di impiegare la TAVI nella stenosi aortica severa asintomatica (premesso che lo possa davvero essere!) e moderata con scompenso cardiaco.
Insufficienza mitralica: Alfieri, un’eccellenza tutta italiana.
Nel 1991 Ottavio Alfieri inventa la riparazione chirurgica edge to edge: tale tecnica prevede la sutura diretta dei due lembi mitralici per impedirne un movimento eccessivo garantendone la continenza mediante la creazione di un doppio orifizio oppure attraverso la sutura delle commissure valvolari. Un anno fa ha ricevuto a New York, nell’ambito del più importante evento scientifico per il trattamento della valvola mitrale, il prestigioso Mitral Conclave Lifetime Achievement Award, da parte dell’AATS (American Association for Thoracic Surgery). La Mitraclip muove i suoi passi proprio dalla riparazione edge to edge. Giuseppe Musumeci ci parla dello stato dell’arte del trattamento percutaneo dell’insufficienza mitralica, patologia ancora altamente prevalente, ma sottotrattata. Le soluzioni transcatetere prevedono la Mitraclip e il Pascal. Il trattamento con Mitraclip ha avuto grande successo (150.000 pazienti trattati). La Mitraclip G4 è la clip di ultima generazione. Mentre il MITRA-FR ha dimostrato alti tassi di complicanze periprocedurali e di device- implantation failure, Il COAPT, come il registro italiano GIOTTO, ha mostrato risultati estremamente favorevoli con persistenza dei benefici oltre i cinque anni. Avere a confronto due trial del genere conferma che, al di là della procedura in sé, la selezione del paziente è fondamentale per l’outcome: se la dilatazione del ventricolo sinistro è significativa l’outcome clinico non potrà che essere sfavorevole. Elementare, Watson! Infine, ma non come ultimo snodo della relazione, viene sottolineata l’importanza sia della stretta collaborazione multidisciplinare all’interno dell’Heart Team con particolare attenzione ai ruoli del cardiologo clinico/ “scompensologo” e dell’ecocardiografista nella corretta selezione del paziente, sia l’estrema importanza della rete ospedale HUB/SPOKE-Territorio per non “perdere” il paziente prima (non individuarlo) e dopo (non riuscire a gestire il f-up) la Mitraclip.
La tricuspide: valvola (non più) negletta?
Francesco Caprioglio ci parla del trattamento percutaneo dell’insufficienza tricuspidale, patologia altamente prevalente (4% degli over 75 anni), ma storicamente “negletta” rispetto alle altre valvulopatie. È secondaria nell’80-90% (legata a patologia del cuore sinistro, ipertensione polmonare o patologie con rimodellamento del cuore destro), primaria nel 5-10%, legata alla presenza di elettrocateteri ventricolari destri (5%). Nella maggior parte dei casi il rigurgito si concentrerà a livello della porzione anterolaterale tra il lembo settale e anteriore (locus di minore resistenza); in molti casi, però, i lembi tricuspidali presentano varianti anatomiche. L’indicazione all’intervento chirurgico in genere eseguito “in combinato” prevede una ” finestra terapeutica” nella quale non si sia ancora sviluppata ipertensione polmonare. Il trattamento TC è al momento in classe IIB. La tecnica TC è mutuata “dalla mitrale”, ovvero dalla riparazione “edge-to-edge”. Le anatomie favorevoli sono che jet anterosettali, gap inferiore a 7 mm, che assenza di interferenza da parte degli elettrocateteri. Sulla base dei registri lo studio TRILUMINATE nel 2023 ha dimostrato che TriClip è efficace ma non si sono evidenziati miglioramenti in termini outcome (probabilmente perché il follow-up osservato è stato eccessivamente breve). Altra opzione è la Pascal. Ci sono anche le valvole ad impianto ortotopico o eterotopico (quest’ultima in vena cava superiore/inferiore o atrio destro con scopo palliativo in pazienti con importante reflusso epato-giugulare). Il Cardioband, mutuato dal mondo “mitralico” ha preso piede anche in ambito tricuspidale.
Controversie chiusura percutanea PFO
Marco Ferlini ci presenta alcune controversie in ambito di chiusura del forame ovale pervio (PFO). La chiusura del forame ovale pervio (FOP) costituisce attualmente uno degli ambiti più promettenti e controversi della cardiologia interventistica, con interventi, indicazioni e letteratura scientifica in crescita vertiginosa. Sebbene la procedura sia considerata relativamente sicura ed efficace, non è scevra di complicanze, e il rapporto costi-benefici non sempre favorevole. Provocatoriamente ci si pone la domanda “qual è l’evidenza definitiva dell’associazione PFO-stroke”? Viene da sé che avere il PFO (presente nel 25% della popolazione) non è un motivo sufficiente ad indicarne la chiusura. Per stabilire un nesso di causalità bisogna valutare se siano presenti caratteristiche di alto rischio (come aneurisma/ipermobilità del setto interatriale, entità moderata o severa dello shunt, concomitante TEP o TVP, ma anche rete di Chiari e valvola di Eustachio prominente e altri fattori) e quale sia il rischio di recidiva (i.e. ad esempio score quali il RoPE). Il secondo quesito oggetto di studio è quale sia l’esame più adeguato per porre diagnosi. L’esame suggerito è il Doppler transcranico con test alle bolle (DTC-C) che ha mostrato la migliore accuratezza (sensibilità del 94% e specificità del 92%, con un’area sotto la curva del 0.97%). Per ragioni logistiche o di opportunità, è anche possibile fare in prima battuta un esame ecocardiografico color Doppler transtoracico con test alle bolle, con l’accortezza in caso di risultato dubbio o negativo di fare comunque un DTC-C prima di escludere la presenza di PFO. Nel caso l’esame di primo livello sia risultato positivo, l’ecocardiografia transesofagea con test alle bolle (ETE-C) serve per confermare la presenza del PFO e rilevarne le caratteristiche utili alla stratificazione del rischio e all’eventuale fase interventistica. L’ETE-C, nonostante sia stata utilizzata come “gold standard” diagnostico per lungo tempo, è invece un test con una sensibilità largamente inferiore a quanto auspicabile e non dovrebbe essere quindi utilizzata come esame di primo livello. È invece indicata un’ETE nel caso sia necessario escludere altre fonti emboligene cardiovascolari. Quale terapia antitrombotica? In merito alla terapia post-impianto, è ritenuto ragionevole prendere posizione in favore di una doppia terapia antiaggregante (DAPT) per 1-6 mesi (5 su 6 studi randomizzati avevano una DAPT in questo range) e una terapia con singolo antiaggregante per 5 anni. Concomitanza PFO e FA: Fondamentale soprattutto nel paziente con età superiore ai 55 anni o anche inferiore se con fattori di rischio per FA è attuare uno screening scrupoloso per l’esclusione dell’FA alla base del possibile cardioembolismo. Nei pazienti ad alto rischio per FA e in cui lo screening standard (ECG di base, monitoraggio intraospedaliero e/o Holter) sia stato negativo, è fortemente proposto l’impianto di un loop recorder impiantabile da monitorare per almeno 6 mesi. In caso di positività di questo esame, è però sempre fondamentale valutare, ancora una volta interdisciplinarmente, il “rischio emboligeno” degli episodi di FA e quello del PFO. Sulla base di questa valutazione si deciderà in merito alla chiusura percutanea o alla terapia medica. Emicrania con aura e PFO: In letteratura esistono studi che mettono in correlazione il PFO con l’emicrania con aura (il 35% dei soggetti con il difetto cardiaco presenta emicrania). A questo proposito, in un recente studio (MANET; Monzino) si è dimostrato che i pazienti con emicrania con aura sono caratterizzati da un fenotipo piastrinico procoagulante sostenuto da un alterato stress ossidativo sistemico. In letteratura non sussistono al momento evidenze dirette di un nesso causale tra emicrania con aura e PFO.
