Le Sindromi Coronariche Acute: Update 2019

Gianluigi Saponara
Marino Scherillo, ANMCO 50

Nella giornata conclusiva dei lavori, interessante meeting di esperti in tema di Sindrome Coronarica Acuta, dalla importanza delle Linee Guida e dell’inquadramento fisiopatologico dell’evento acuto fino ai gaps in evidence passando per l’ottimizzazione del percorso dell’NSTEMI e della terapia in Hospital della Sindrome Coronarica Acuta. La quarta definizione universale dell’infarto miocardio ha chiarito alcuni fondamentali aspetti: la distinzione tra infarto miocardico e danno miocardico, l’utilizzo appropriato dei biomarcatori, la differenza fisiopatologica tra infarto tipo 1 ed infarto tipo 2. Punti più controversi e che saranno oggetto di speculazioni future sono quelli epidemiologici e di prognosi dei vari tipi di infarto, il ruolo dell’imaging nella diagnosi e nella stratificazione prognostica dei pazienti con SCA e di quelli ad alto rischio di eventi coronarici (vedi TC coro ed RMN). Il MINOCA è una definizione nata con l’intento di indagare i meccanismi fisiopatologici coinvolti nelle SCA, attualmente rappresenta circa il 10% degli infarti e la mortalità ad un anno si attesta intorno al 3,5%. Gli elementi predittivi di MINOCA sono: sesso femminile, fumo, età < 55 anni, assenza dei comuni fattori di rischio. Con una visione coronarocentrica si possono dividere i MINOCA in quelli con distribuzione epicardica ad esempio spasmo coronarico, dissezione coronarica, embolia e quelli con distribuzione microvascolare (es: tako tsubo, spasmo microvascolare, embolizzazione coronarica distale, dissezione coronarica distale). Rimangono ancora zone d’ombra, ad esempio nella diagnosi differenziale con le miocarditi che provocano danno microvascolare diffuso, inoltre la diagnosi di MINOCA presuppone uno sforzo diagnostico ulteriore non sempre fruibile. Nel trattamento dello STEMI alcune indicazioni hanno recentemente acquisito maggiore consistenza: lo STEMI con coinvolgimento multivasale si giova di una strategia “PCI staged on stay” durante il ricovero, il CULPRIT-SHOCK trial ha definitivamente sancito l’indicazione a rivascolarizzare solo la lesione culprit in caso di instabilità emodinamica, possiamo sospendere dopo 6 mesi la DAPT nei pazienti con un elevato rischio emorragico (PRECISE DAPT >25), dobbiamo prolungare la nostra duplice terapia oltre il primo anno (schema PEGASUS) nei pazienti ad elevata incidenza di re-evento. È importante considerare lo STEMI come una riacutizzazione di una malattia cronica (il 20% dei pazienti ha stroke, infarto o morte CV a 1 anno dall’evento) per trattarlo al meglio sia prima che dopo l’ospedalizzazione. La mortalità per infarto in Italia è tra le più basse al mondo, la prevalenza però di SCA-NSTEMI è in aumento e per tale motivo nasce la necessità di strutturare una rete efficace per questa patologia, è fondamentale assicurare un trattamento antitrombotico ottimale, favorire l’accesso alla emodinamica in tempi rapidi ed integrare le varie figure dal territorio al centro HUB con l’obiettivo di portare la mortalità a 30 giorni al di sotto del 7%. La mortalità del paziente con STEMI senza impegno emodinamico è vicina al 3%, lo shock cardiogeno complica lo STEMI circa nel 8% dei casi con una mortalità vicina al 50%. Riconoscere i segni clinici ed emodinamici che preannunciano l’evoluzione verso lo shock è di fondamentale importanza, la saturazione venosa centrale segnala lo sbilancio tra richiesta e trasporto di ossigeno anticipando la franca ipoperfusione che porta all’incremento dei lattati, è pertanto auspicabile il suo monitoraggio tramite catetere venoso centrale in unità coronarica nei pazienti critici. Come dobbiamo antiaggregare i pazienti in dialisi che vanno incontro a Sindrome Coronarica Acuta? A questa domanda non esiste ancora risposta in letteratura, anche se possiamo trarre alcune indicazioni utili: i pazienti in dialisi hanno un rischio di sanguinamento molto elevato, prasugrel e ticagrelor hanno la stessa efficacia nei pazienti in dialisi rispetto a quelli non dializzati, con il clopidogrel si paga una elevata attività piastrinica residua, che se da un lato fa sanguinare meno dall’altro espone questi pazienti ad un rischio di re-evento importante. Caso per caso a seconda del rischio emorragico complessivo si può optare per la molecola ritenuta più adatta; ridurre il periodo di DAPT a 6 mesi riduce i sanguinamenti senza un significativo impatto sul tasso di reinfarto, considerare la singola terapia antiaggregante nei pazienti non portatori di stent può essere una alternativa da considerare.