LE SCA: NUOVE STRATEGIE DIAGNOSTICHE E TERAPEUTICHE

Riccardo Barrucci

Le sindromi coronariche acute (SCA) sono la principale causa di mortalità nel mondo occidentale e determinano una elevata morbilità. Nell’ultimo decennio si sono sviluppate nuove strategie terapeutiche sia farmacologiche che interventistiche. L’uso degli ultrasuoni intravascolari (IVUS) e della tomografia a coerenza ottica (OCT) hanno permesso di ottenere maggiori informazioni sulla struttura del vaso colpito. Lo shock cardiogeno costituisce una delle più gravi complicanze delle sindromi coronariche acute che peggiora drasticamente la prognosi del paziente affetto.

Il Simposio congiunto ANMCO – ACC sulle sindromi coronariche acute rappresenta un evento di sicura rilevanza all’interno del 45° Congresso Nazionale di Cardiologia. Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di mortalità e morbilità nei paesi occidentali e come è noto, l’incidenza aumenta con l’età. Con il progressivo aumento dell’età media nei paesi avanzati, la popolazione colpita dalle sindromi coronariche acute è destinata a crescere con un profilo di rischio dei pazienti sempre più complesso.
Nell’ultimo decennio le strategie terapeutiche a disposizione, sia farmacologiche che interventistiche, sono notevolmente aumentate e questo ha portato ad una riduzione della mortalità. Da un lato sono comparsi sulla scena nuovi farmaci, come il clopidogrel, il prasugrel, il ticagrelor, le eparine a basso peso molecolare, gli inibitori delle glicoproteine IIb/IIIa, e dall’altro la rivascolarizzazione coronarica è diventata pratica comune in molti centri nazionali ed internazionali.
La componente principale dell’approccio terapeutico nello STEMI è rappresentata da una precoce terapia riperfusiva in quanto permette la completa ricanalizzazione del vaso ostruito bloccando la progressione del danno miocardico.
Nell’NSTEMI la strategia terapeutica ottimale deve essere “adattata” al singolo paziente, garantendo un approccio “aggressivo” ai pazienti a più alto rischio cardiovascolare, con un’attenta valutazione del rischio emorragico. Ad oggi il “timing” dell’approccio invasivo in questa categoria di pazienti è ancora oggetto di dibattito.
Negli ultimi anni inoltre si sono sviluppate nuove metodiche diagnostiche come l’uso degli ultrasuoni intravascolari (IVUS) e della tomografia a coerenza ottica (OCT) che hanno permesso di ottenere informazioni più dettagliate sull’anatomia del vaso in termini di dimensione, estensione e composizione di placca e che si sono rivelate fondamentali nel guidare l’emodinamista verso la più corretta scelta terapeutica.
Lo shock cardiogeno costituisce una delle più gravi complicanze delle sindromi coronariche acute che peggiora drasticamente la prognosi del paziente affetto. Richiede un approccio “aggressivo” caratterizzato da una terapia riperfusiva precoce e si avvale di terapie come la ventilazione meccanica, la contropulsazione aortica e il supporto aminico. In casi selezionati si può rendere necessaria la circolazione extracorporea (ECMO) o l’impianto di dispositivi di assistenza ventricolare fino al trapianto cardiaco.

 


 

ARRESTO CARDIACO INTRAOSPEDALIERO: UN PROBLEMA DISATTESO!

di Alessandra Pratesi

 

Una interessante sessione con un’amara conclusione: nonostante tutti gli sforzi fatti negli ultimi anni, siamo ancora ben lontani dagli obiettivi di efficacia che sono necessari ad un ottimale gestione dell’arresto cardiaco. Servono nuove idee, nuovi metodi e grande entusiasmo per fare cultura sull’ACR, dentro e fuori l’ospedale.

Devo ammettere che mi aspettavo una maggiore affluenza a questa convention ma questo forse non è che lo specchio di un disinteresse, o di una sottovalutazione, di un problema assai allarmante. Sono in via di produzione dati italiani sull’epidemiologia dell’arresto cardiaco intraospedaliero, in termini di riconoscimento, trattamento, risultato e prognosi. Ma quelli che sono presenti nella letteratura, per lo più americana, ma anche europea, sono scoraggianti: a parte poche oasi felici, come Seattle, la realtà è che di fronte ad un arresto cardiaco la maggior parte delle persone, siano essi medici o “laici”, cade in uno stato confusionale acuto ipocinetico. La famosa “catena della sopravvivenza” che ci insegnano durante i corsi BLSD e ALS – precoce riconoscimento e chiamata d’aiuto, precoce rianimazione cardio-polmonare, precoce defibrillazione, cure post arresto cardiaco – spesso si inceppa al primo anello. E ciò a fronte di un’incidenza di ACR intraospedalieri che viene stimata variabile tra 2 e 13/1.000 pazienti. I dati presenti in letteratura mostrano che l’ACR intraospedaliero riguarda soprattutto pazienti di sesso maschile di età media 74 anni, avviene per lo più in reparti medici (circa 80%) ed è ascrivibile nei 2/3 dei casi a cause cardiache. Nel registro redatto dal Dr. Capecchi sugli arresti cardiaci intraospedalieri nell’Ospedale di Bentivoglio, di 62 eventi registrati una bassissima percentuale (14,5%) si risolveva in maniera favorevole con la sopravvivenza del paziente (46,1 % per ritmi defibrillabili, 6,1% per quelli non defibrillabili). Risulta evidente che ci sono degli anelli deboli nella catena della sopravvivenza. E già renderci conto delle lacune sarebbe un primo passo importante verso il miglioramento, cosa che purtroppo spesso non avviene visto che il registro del Dott. Capecchi è una rarità nel nostro panorama nazionale.
La convention è stata molto interessante e ricca di spunti. Tra le altre, mi preme sottolineare una utile raccomandazione dataci dal Dott. Cibinel che ha sottolineato come effettuare un’ecocardiografia durante le compressioni cardiopolmonari permetta di aiutare ad individuare con pochi dati quale possa essere la genesi dell’arresto cardiaco (sezioni destre dilatate, cavità cardiache molto ridotte, etc).
Concludendo, se dovessi fare un “take home message” di questa sessione direi che è necessario:
– fare cultura fuori e dentro l’ospedale affinchè la RCP inizi quanto prima e venga fatta di qualità elevata;
– monitorizzare il paziente in modo tale da prevenire che un paziente instabile precipiti in peri-arresto e di qui in arresto cardiaco; in questo compito occorre sottolineare quanto sia fondamentale il ruolo del personale non medico, più continuamente a contatto col paziente;
– creare all’interno dell’ospedale team multidisciplinari, in cui ogni figura professionale svolga il ruolo in cui è competente in maniera ottimale ed integrata, comunicando efficacemente;
– fare training e re-training continui di medici, personale infermieristico ed OSS, affinchè ciascuno possa dare il suo aiuto tempestivo ed efficace in questo lavoro di squadra;
– se possibile, effettuare un briefing dopo ogni evento, in modo tale da renderci consapevoli degli errori fatti, riflettere su di essi, e trasformare i punti deboli in ulteriori punti di forza.
Quindi, abbiamo bisogno di nuove idee e di applicare quelle già presenti, di coinvolgere le altre figure professionali e di farlo quanto prima!

 

 


 

 

SINDROME CORONARICA ACUTA O STATO CONFUSIONALE ACUTO: STRATEGIE D’INTERVENTO NEL NSTEMI

di Alessandra Pratesi

 

Di fronte allo STEMI è difficile intraprendere iter diagnostico-terapeutici sbagliati… ma è nel suo “fratello minore”, dal più bonario aspetto, che sorgono le vere difficoltà gestionali: nella tempistica, nella scelta della terapia ottimale, nella gestione successiva. Una sessione da non perdere!

Partiamo dalla definizione: infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST. Quindi: alterazioni elettrocardiografiche non sempre chiare, movimento degli enzimi miocardio-specifici quanto mai variabile, sintomatologia spesso non tipica. In quali pazienti lo troviamo più spesso? Anziani, diabetici, dializzati… pazienti che hanno una condizione clinica complessa, molto comorbidi, in polifarmacoterapia, di difficile inquadramento prognostico. E poi si sa… il NSTEMI è l’infarto delle coronaropatie multivasali. Quindi, se nel temibile STEMI sappiamo che dobbiamo agire il prima possibile perché ne va della sopravvivenza del paziente, nel NSTEMI abbiamo quel margine di libertà che in realtà rende più difficoltosa la scelta terapeutica. E ancora prima, la difficoltà sorge spesso già al momento della diagnosi.
Nella realtà clinica sappiamo che spesso un dolore toracico “tipico” si associa alla chiamata del Cardiologo di guardia, che quanto meno deve fare un’ecocardiografia e richiedere una curva enzimatica. E se per caso si ha anche un minimo movimento della troponina, anche in associazione ad un’elettrocardiogramma quasi silente, il paziente viene inviato in letti monitorizzati cardiologici. Quindi già a questo punto dovremmo chiederci: bastano gli strumenti che abbiamo per fare un efficace screening e una corretta diagnosi?
Poi il paziente arriva in reparto di cardiologia, viene monitorizzato e ora dobbiamo capire se davvero quel paziente è un coronaropatico e, in tal caso, se ha più senso un approccio invasivo o la terapia medica. Una volta che abbiamo optato per l’approccio invasivo, qual è il momento migliore per lo studio coronarografico? In un mondo ideale il paziente sta bene, fa un NSTEMI e viene studiato. Ma nel mondo reale spesso il NSTEMI è l’espletazione di una rottura di un equilibrio precario che talora può essere imputato a polmoniti, anemizzazioni, assunzioni sbagliate di terapia, interventi chirurgici… E una volta scelto il timing dell’intervento pretratto il paziente? E in che modo?
Così il paziente arriva in Sala di Emodinamica e non ci sorprende scoprire che ha una coronaropatia multivasale: se la maggior parte delle volte è facile capire quale sia la lesione culprit, altrettanto non può essere detto su quali siano le lesioni da trattare. Negli ultimi anni ci sono venute incontro metodiche sempre più raffinate, come la misura del Fractional Flow Reserve, la visualizzazione intracoronarica della lesione mediante IVUS od OCT, ma non dimentichiamoci che sono metodiche costose e che quindi dobbiamo imparare ad usarle quando opportuno e ad interpretarle correttamente.
Infine, il nostro paziente esce dal reparto con la sua terapia e il suo programma, effettua la Riabilitazione Cardiologica oppure viene affidato alle cure del Cardiologo curante. E i problemi non finiscono qui, perché ogni paziente necessiterà di un follow up individualizzato e spesso della collaborazione efficace con altre figure professionali: quando e come rivalutare il paziente? Come gestire le complicanze e le comorbidità? Per quanto tempo effettuare la doppia terapia antiaggregante?
Insomma: una gestione complessa per un paziente complesso, che richiede un’ottima conoscenza delle nostre armi diagnostiche e terapeutiche, un buon senso clinico e una particolare attenzione a prevenzione e trattamento delle eventuali complicanze. L’ANMCO ancora una volta viene in nostro aiuto organizzando una sessione dedicata, da non perdere!

 

 


 

 

PROBLEMATICHE CLINICHE IN CATH LAB

di Alessio Mattesini

 

Ben oltre il riflesso oculostenotico: il trattamento a tuttotondo del paziente cardiologico spesso  inizia nel Cath Lab!

Il percorso diagnostico e terapeutico del paziente cardiologico spesso vede un passaggio nel Cath Lab. Talvolta la sala di emodinamica rappresenta proprio la porta di ingresso, come nel caso delle sindromi coronariche acute ad alto rischio, in altri casi un punto di passaggio necessario per la diagnostica. Proprio nel Cath Lab il cardiologo interventista deve fronteggiare problematiche cliniche cruciali che vanno ben al di là del solo atto tecnico richiesto per l’eventuale rivascolarizzazione coronarica o trattamento percutaneo di patologie valvolari.
La sessione che si terrà venerdì alle 19 in Sala Giacomo Binda, moderata da Mauro Lazzari e Antonio Manari, porrà l’attenzione proprio sulle problematiche cliniche in Cath Lab. Nella prima relazione largo spazio a Mario Leoncini, che, dopo il successo all’edizione 2013 del TCT e la pubblicazione su JACC del PRATO ACS Trial ci parlerà della nefropatia da mezzo di contrasto (CIN). L’attualità di questa problematica è sempre più pressante anche considerando l’incremento dell’età media dei pazienti ed il numero crescente di quelli con moderata insufficienza renale sottoposti a procedura interventistiche. Considerando il gran bel background scientifico del gruppo di colleghi dell’ospedale di Prato, ci aspettiamo una bella relazione sul ruolo delle statine nella prevenzione della CIN e forse anche alcuni dettagli sulla gestione dello stato volemico per la prevenzione nefropatia da mezzo di contrasto.
Seguirà Alberto Menozzi che ci illustrerà i mille dilemmi che spesso si affacciano nella gestione della terapia antiaggregante in caso di sindrome coronarica acuta. Con l’avvento dei nuovi antiaggreganti piastrinici, infatti, il trattamento viene spesso iniziato proprio in sala di emodinamica anche considerando i risultati dell’ACCOAST Trial che ha al momento chiuso la strada al pretrattamento con prasugrel nei pazienti con infarto miocardico con ST non sottolivellato.
Sul finire di giornata, Luigi La Vecchia affronterà l’alterna fortuna della tromboaspirazione durante l’angioplastica primaria. Ormai assodato dagli Studi OCT che la tromboaspirazione, sia essa manuale o reolitica, rimuove solo una parte del trombo, resta da definire, tra risultati discordanti di grandi trial (verrebbe da dire TAPAS to TASTE!) quale sia il reale impatto clinico di questa procedura. Non mancate pertanto a questa interessante sessione che con occhio clinico svelerà le problematiche cliniche tipicamente affrontate in Cath Lab.


STENT TROMBOSI: SE LA CONOSCI LA PUOI EVITARE

di Alessio Mattesini

 

Di tempo ne è passato dal clamore suscitato dai dati presentati all’ESC 2006 sulla trombosi dei DES di prima generazione. Tuttavia l’argomento è sempre scottante e non perdete occasione di approfondirlo quest’anno all’ANMCO.

Gli stent di prima generazione a rilascio di sirolimus o paclitaxel (DES) dimostrarono da subito di ridurre il rischio di restenosi e “target vessel revascularization” in confronto con gli stent metalici (BMS).
Tuttavia, in molti ricorderanno come l’iniziale entusiasmo venne bruscamente troncato in occasione del Congresso della Società Europea di Cardiologia del 2006 tenutosi a Barcellona. Durante tale Congresso un vero e proprio tornado travolse la prima generazione dei DES diffondendo preoccupazione tra il pubblico, i cardiologi interventisti e gli stessi media. Infatti, lo stesso Wall Street Journal, edizione del 22 Giugno 2006 titolava: “Concerns prompt some hospitals to pare use of drug  coated stents”. Tutto questo scalpore veniva sollevato dalla presentazione di una vasta metanalisi di Camenzind et Al. che evidenziava un incremento della mortalità nei pazienti trattati con DES di prima generazione rispetto a quelli trattati con BMS dovuto ad un netto incremento della trombosi anche tardiva di stent. Successivi studi patologici dimostrarono che il polimero permanente dei DES di prima generazione poteva avere un ruolo fondamentale nella trombosi, soprattutto tardiva, determinando infiammazione cronica della parete del vaso. Allo stesso tempo, le maglie spesse della prima generazione di DES, causando un importante turbolenza del flusso venivano generalmente ritenuti una possibile causa della trombosi acuta.
Dal 2006 ad oggi le cose sono certamente cambiate notevolmente. L’evoluzione degli stent medicati, che ha portato alla diffusione capillare nei laboratori di interventistica dei DES di seconda generazione, ha ridimensionato notevolmente il problema.  L’evoluzioni nella composizione del polimero e l’avvento delle sottili maglie in leghe metalliche, hanno reso la trombosi di stent un evento estremamente raro e spesso “prevedibile” e pertanto spesso “evitabile”. Recentemente, le metanalisi di Tullio Palmerini, hanno ufficialmente confermato quella che era l’impressione dei cardiologi interventisti e clinici: i DES di seconda generazione sono sicuri e riducono l’incidenza di trombosi di stent anche in confronto ai BMS.
Ad ogni modo, la trombosi di stent resta un argomento di notevole interesse e sforzi continui sono affrontati per ridurre ancora questo sempre temibile evento. Vari sono gli aspetti sui quali la scienza e l’industria si ingegnano per contrastare ulteriormente questo evento: tecnologia dei materiali degli stent, ottimizzazione dell’impianto con ausilio di imaging intracoronarico, corretto timing della terapia antitrombotica e suo eventuale monitoraggio con test di aggregazione piastrinica.
Per tutte queste ragioni, che siate cardiologi clinici od interventisti, non perdetevi il simposio di domani pomeriggio sulla trombosi di stent. Aprirà la sessione Ugo Limbruno parlandoci dell’evoluzione degli stent: sarà molto interessante sentirlo parlare di stent a polimero riassorbibile o rivestiti di biofilm cosi come di stent a maglie ultrasottili o più spesse come per i nuovi “scaffold” completamente riassorbibili. A seguire Massimo Fineschi ci parlerà del ruolo dell’imaging intracoronarico: IVUS ed OCT possono veramente aiutarci a ridurre la probabilità di trombosi di stent ? E quale ruolo giocano nella diagnosi? Infine la sessione affronterà un tema cruciale quando si parla di trombosi di stent: la terapia antitrombotica. Di questo ultimo aspetto sarà affrontato il timing, la scelta della del farmaco antitrombotico ed il ruolo del monitoraggio con i test di aggregazione piastrinica dell’efficacia della terapia antitrombotica.
Il tema è sempre scottante, ne sentiremo di novità e vi aspettiamo numerosi a questa interessante sessione.

 


LA VALUTAZIONE DELLA STENOSI CORONARICA

di Alessio Mattesini

 

La valutazione della criticità della stenosi coronarica ha subito una notevole evoluzione nell’ultimo decennio. Un tempo l’angiografia era pressoché l’unica metodica disponibile per la valutazione dell’entità di stenosi coronarica e il fatidico 70% rappresentava spesso l’ago della bilancia nel decidere se trattare o meno una lesione.
Negli ultimi anni le cose sono cambiate notevolmente e si è sempre più affermato il concetto della valutazione funzionale della stenosi coronarica. Gli Studi FAME, in particolare, hanno sancito l’importanza della valutazione funzionale ai fini prognostici quando si debba decidere se rivascolarizzare una lesione coronarica. In questa sessione sarà affrontato questo tema di interesse pressoché quotidiano. Saranno trattate le principali metodiche non invasive per la valutazione funzionale della stenosi coronarica.  Il ruolo della ecocardiografia da stress verrà affrontato da Lauro Cortigiani, mentre, a seguire, Marco Mazzanti illustrerà i vantaggi e le limitazioni della scintigrafia miocardica. Sempre sul fronte della valutazione funzionale, in questo caso invasiva, Cristiano Lisi ci parlerà di valutazione della stenosi coronarica con guide di pressione affrontando pertanto le problematiche legate alla metodica Fractional Flow Reserve.
nfine, tornando alla valutazione morfologica ed anatomica della stenosi, Andrea Igoren Guaricci parlerà di Angio TC coronarica. Questa promettente metodica non invasiva si presta oggi a una enorme versatilità in ambito clinico sia per lo screening che per il follow-up dei pazienti trattati con angioplastica ed impianto di stent.
Sicuramente questa sessione sulla valutazione della stenosi coronarica offrirà un’occasione per riflettere come nella nostra pratica clinica sia di fondamentale importanza la conoscenza integrata delle diverse metodiche diagnostiche, ciascuna con i propri vantaggi e i propri limiti. Solo grazie ad una profonda conoscenza possiamo valutare in maniera globale il malato, ma soprattutto possiamo scegliere la strategia terapeutica più adeguata e più consona. Il tema è sempre scottante, ne sentiremo di novità e vi aspettiamo numerosi a questa interessante sessione.