Ipertensione polmonare: gestione pratica della terapia

di Martina Milani
Una guida su come scegliere il principio attivo e il paziente da trattare, alla luce delle nuove evidenze

L’ipertensione polmonare, come noto, è una patologia debilitante, evolutiva e a prognosi infausta, su cui è indispensabile intervenire il prima possibile e con il trattamento corretto.

Ormai la monoterapia, come ha evidenziato il dottor Marco Vatrano, è obsoleta e trova indicazione solo nei pazienti stabili da molto tempo o che per comorbidità non hanno accesso ad altre soluzioni.
Oggi, la maggior parte dei pazienti, e soprattutto quelli con nuova diagnosi, merita una terapia di combinazione come prima scelta. Infatti, la duplice terapia si è dimostrata superiore in termini prognostici alla singola, indipendentemente dai principi attivi utilizzati. Essere da subito aggressivi su più fronti (agendo sui pathway dell’endotelina, dell’ossido nitrico e della prostaciclina) consente di ridurre il rischio di evoluzione negativa e di mantenerlo basso per lungo tempo.
Inevitabilmente l’associazione di più principi incrementa il rischio di effetti collaterali, ma ciò che più va temuto è, in realtà, l’inesorabile progressione della patologia arteriosa polmonare.

Per una corretta gestione, i pazienti devono essere stratificati in tre livelli di rischio, come mostrato nelle linee guida ESC del 2015. La duplice terapia è indicata nel low risk; ai primi segnali di incremento del rischio ad un livello intermedio, deve essere rapidamente aggiunto un terzo principio attivo orale (il selexipag, agonista non prostanoide del recettore della prostaciclina).

Di prostanoidi e selexipag si è occupato il dottor Andrea Garascia. Selexipag si è dimostrato più efficace, rispetto agli inibitori del recettore dell’endotelina e della fosfodiesterasi da soli e in combinazione, nel ridurre la progressione di malattia e l’ospedalizzazione. Qual è il paziente target di questo farmaco? Quello naif ad alto rischio o quello intermediate-risk in duplice terapia che, rivalutato a 3-6 mesi, permane nella stessa classe di rischio.
L’evoluzione ad high risk nel paziente in duplice o triplice terapia è indicazione ad avviare i prostanoidi endovenosi, trattamento efficace ma ancora poco implementato, da un lato per la scarsa accettazione del paziente (poco tollerante verso l’accesso venoso a permanenza e timoroso degli effetti collaterali), dall’altro per le difficoltà che i medici riscontrano nel gestire una terapia così complessa, anche dal punto di vista organizzativo. Per far fronte a quest’ultimo problema, vi è indicazione a inviare a un centro di riferimento il paziente che deve avviare la triplice terapia.

Anche quando il paziente si instabilizza acutamente ed evolve in una condizione di shock cardiogeno, è necessario riferirlo ad un hub specializzato.

Nel paziente in shock, come mostrato dal dottor Gabriele di Gesaro, fondamentale per l’inquadramento e la gestione, è l’esecuzione di un cateterismo cardiaco destro. Devono poi essere rimossi i trigger, ridotto l’afterload del ventricolo destro e deve essere gestito adeguatamente il ritorno venoso. Gli inotropi più utilizzati sono dobutamina, levosimendan e milrinone. Viene sconsigliata, nel limite del possibile, l’intubazione, che peggiora l’emodinamica delle sezioni destre.

In caso di fallimento della terapia inotropa, si deve valutare il posizionamento di ECMO (necessariamente veno-arterioso in caso di insufficienza ventricolare destra) di solito come bridge to transplantation. Scarsamente efficace risulta invece l’impianto di RVAD, dal momento che può peggiorare il rimodellamento vascolare polmonare.

Martina Milani