Insufficienza cardiaca: criticità e prospettive

di Martina Milani

La Main Session sull’insufficienza cardiaca, moderata dai dottori Domenico Gabrielli e Luigi Tavazzi, si è occupata di analizzare le criticità che ancora si ritrovano nel trattamento dell’insufficienza cardiaca.

I grandi successi, ad ora, sono stati ottenuti principalmente nel campo della terapia farmacologica. Come mostrato dal dottor Edoardo Gronda, l’insufficienza cardiaca si è giovata di un ricco arsenale di trattamenti, che non ha eguali in nessun’altra patologia. Terapie non solo numerose, ma anche così efficaci che hanno consentito nel tempo di ridurre sensibilmente la mortalità. Un grande potere è dunque nelle nostre mani, ma da un grande potere deriva l’altrettanto grande responsabilità di conoscere e utilizzare tutto quanto è disponibile.

Nell’armamentario terapeutico i betabloccanti svolgono ancora un ruolo di primaria importanza, essendo i più efficaci, se ben utilizzati, nel diminuire la mortalità. Dato che, nella fase di titolazione, l’associazione betabloccante-ARNI incrementa gli eventi ipotensivi, è consigliato avviare inizialmente betabloccanti e inibitori dell’SGLT2 e, solo successivamente, associare sacubitril-valsartan e antagonisti dell’aldosterone, personalizzando anche la dose di diuretico.

Gli inibitori dell’SGLT2 sono gli indiscussi protagonisti degli ultimi anni, avendo dimostrato, nei pazienti con insufficienza cardiaca a frazione di eiezione ridotta, diabetici e non, di ridurre le ospedalizzazioni per scompenso, la mortalità cardiovascolare e gli eventi renali avversi.

Interessante notare come dall’EMPEROR-Reduced sia emerso che l’effetto sull’endpoint primario (morte cardiovascolare e ospedalizzazioni) è precoce e disgiunto dal calo del filtrato glomerulare che si verifica nelle prime fasi di terapia e che dunque non bisogna temere. A maggior ragione per il fatto che nei pazienti con insufficienza renale cronica gli SGLT2 riducono gli endpoint renali, le ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca e la mortalità globale, anche se quest’effetto compare solo a distanza dall’inizio della terapia e nonostante l’eGFR nel gruppo trattato sia inferiore rispetto al braccio placebo.

A fronte dei risultati della terapia farmacologica, le difficoltà in campo di trattamento dell’insufficienza cardiaca sono ancora molte.

La prima riguarda le comorbidità, di cui si è occupato il dottor Massimo Iacoviello. Esse hanno un peso sempre più rilevante nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca, sia per la loro crescente prevalenza, sia per il loro impatto prognostico e le possibili interazioni terapeutiche. La gestione delle comorbidità è una sfida: infatti, pochi studi hanno valutato l’effetto del loro trattamento nei pazienti con scompenso cardiaco e le strategie possono variare nelle fasi acute e croniche. La multidisciplinarietà e l’individualizzazione del trattamento sono strumenti essenziali.

L’introduzione degli SGLT2 e la correzione della carenza marziale rappresentano i pochi trattamenti delle comorbilità raccomandati per lo scompenso cardiaco.

Un altro punto critico è la fase di dimissione del paziente ospedalizzato, come ha ben illustrato il dottor Giuseppe di Tano. Infatti, il ritorno a domicilio, se non ben gestito, pone a rischio di una nuova instabilizzazione. Sappiamo bene che ogni accesso in ospedale è un fattore prognostico negativo nella storia del paziente con insufficienza cardiaca, dunque pianificare correttamente la transizione post-ricovero è essenziale per ridurne l’incidenza.

Qualsiasi modello di transizione deve essere configurato in relazione a peculiarità logistiche, risorse professionali, ospedaliere, territoriali e sociali in cui ciascun centro opera. Il punto di inizio di questo modello è il momento della dimissione: curare attentamente la lettera e le indicazioni lasciate al paziente è fondamentale.

Purtroppo ad accogliere il paziente che torna a domicilio c’è un territorio che ha mostrato tutte le sue debolezze in questo periodo di pandemia. Dunque l’ospedale deve sempre restare un punto fermo per il paziente con scompenso, sia per le sue potenzialità diagnostiche che di ottimizzazione terapeutica.

Come nuovo modello di gestione del paziente con scompenso, la dottoressa Nadia Aspromonte ha proposto la creazione di un percorso per il singolo paziente, gestito da un team multidisciplinare, integrato da personale amministrativo e coadiuvato da una piattaforma digitale, nella quale convergano tutti i dati relativi alla storia clinica del malato e agli interventi fatti su di lui (non solo prettamente ospedalieri, ma anche ad esempio la titolazione della terapia, i cicli di riabilitazione, gli interventi psicologici, un programma educazionale, la gestione delle comorbidità).

Il tema della digital health, affidato al dottor Andrea Mortara, è sicuramente tra i più trattati nel corso del Congresso ANMCO 2021. Innegabilmente la digitalizzazione è entrata in modo prorompente nella sanità dopo l’avvento della pandemia, ma verosimilmente, con la riduzione della pressione da parte del virus, in parte sarà destinata a ridursi. Infatti, per il paziente, il contatto diretto con il medico è fondamentale, dunque non sarà proponibile una telemedicina identica a quella vissuta lo scorso anno. Ideale sarebbe un approccio ibrido, intermedio. Presupposto è l’implementazione del fascicolo sanitario elettronico, così che i dati possano essere disponibili prontamente. Integrandoli con elementi clinici, derivati dal colloquio con il paziente oppure trasmessi da sensori (come CardioMEMs e Cordella System) e da app (le più affidabili sono quelle sostenute da società scientifiche), il medico potrebbe, anche a distanza, formulare proposte terapeutiche.

Gli ostacoli principali alla realizzazione della rivoluzione digitale sono la rimborsabilità delle prestazioni, l’incompatibilità delle diverse interfacce, l’ampia accessibilità da parte dei pazienti e l’ancora troppo ridotta diffusione dell’informatizzazione in ambito sanitario.

Martina Milani
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