La Dott.ssa Calcaterra ha aperto la sessione focalizzandosi sull’incremento della prevalenza delle malattie cardiovascolari in gravidanza, che, secondo i dati epidemiologici, è passata dal 9% al 14% tra il 2010 e il 2019, con un’incidenza attuale pari all’11,3%. Questo scenario ha favorito lo sviluppo della cardio-ostetricia, nuova area specialistica promossa anche da autorevoli figure come Braunwald, che nel 2024 ne ha sostenuto formalmente l’affermazione.
La cardio-ostetricia si propone di seguire la paziente con cardiopatia lungo l’intero percorso ostetrico, articolandosi in quattro fasi fondamentali:
- valutazione preconcezionale,
- gestione della gravidanza,
- pianificazione multidisciplinare del timing del parto,
- gestione del parto.
Tutte le donne affette da cardiopatia strutturale o valvulopatia aortica dovrebbero essere sottoposte a counseling specialistico preconcezionale, supportato dalla classificazione mWHO, utile nella stratificazione del rischio e nella definizione del percorso assistenziale. Patologie ad alto rischio, come ipertensione polmonare, frazione di eiezione <30%, classe NYHA >II, e LVOTO, sono considerate controindicazioni assolute alla gravidanza. La gestione clinica richiede una calendarizzazione strutturata dei controlli e l’identificazione del setting assistenziale più idoneo, proporzionale alla complessità della condizione cardiaca. Il monitoraggio continuo e l’adattamento terapeutico sono essenziali per ridurre la morbilità e la mortalità materno-fetale. La programmazione del parto deve avvenire tra la 20ª e la 28ª settimana di gestazione, mediante un team multidisciplinare comprendente cardiologi, ostetrici, anestesisti e neonatologi. In presenza di cardiopatie complesse, il parto deve essere pianificato in centri di terzo livello, dotati di risorse avanzate per il monitoraggio peripartum. Indicazioni specifiche al parto cesareo comprendono: ipertensione polmonare, valvulopatie severe, scompenso cardiaco acuto e trattamento con antagonisti della vitamina K (VKA), per il rischio di emorragie neonatali. Negli altri casi, l’indicazione al tipo di parto rimane ostetrica.
Le domande più frequenti in sede di consulenza riguardano: disordini ipertensivi della gravidanza (inclusa la sindrome HELLP), cardiomiopatie e aritmie. In assenza di studi clinici randomizzati, l’ESC ha istituito il registro ROPAC (Registry Of Pregnancy And Cardiac Disease), che ha identificato come principali predittori di esiti avversi la presenza di cardiomiopatie e ipertensione polmonare. Il registro ha inoltre evidenziato un significativo aumento della prevalenza di queste condizioni tra le gestanti. La gravidanza dovrebbe essere sconsigliata in presenza di frazione di eiezione (FE) <30%, data l’elevata morbidità materno-fetale associata. Negli altri casi, una sospensione graduale della terapia cardioprotettiva può essere valutata, sempre sotto stretto monitoraggio clinico. Diversi farmaci, tra cui MRA, SGLT2-i, ARNI, ACE-inibitori e ARB, risultano controindicati in gravidanza per i noti effetti teratogeni o tossici. Tuttavia, il parto può essere condotto per via vaginale nella maggior parte dei casi, ad eccezione delle pazienti con scompenso cardiaco acuto, dove è preferibile il taglio cesareo per motivi di sicurezza emodinamica.
La cardiomiopatia peripartum merita una considerazione a parte. Secondo i dati dell’Euro Research Program Registry, fino al 50% delle pazienti affette non presenta segni di congestione centrale o periferica. Questa forma di cardiomiopatia richiede dunque un monitoraggio intensivo nel periodo peripartum e nel post-partum, anche in assenza di sintomi conclamati. Alla luce della complessità e della variabilità del quadro clinico delle pazienti con patologia cardiovascolare in gravidanza, è essenziale adottare un approccio sistemico e multidisciplinare. Il team cardio-ostetrico, composto da cardiologi, ginecologi, anestesisti e neonatologi, rappresenta il perno attorno al quale ruota la gestione clinica, dalla fase preconcezionale fino al puerperio.
La Dott.ssa Cicala ha approfondito il tema della consulenza cardiologica in età pediatrica, evidenziando come i motivi di invio siano molto vari. Le richieste più frequenti riguardano bronchiolite (27%), febbre persistente (25%), sincope (15%), dolore toracico (10%), soffio cardiaco (7%) e scarso accrescimento (5%).
Tra le diagnosi da escludere in caso di febbre prolungata, la Malattia di Kawasaki è prioritaria. Colpisce circa 14,7 bambini ogni 100.000 sotto i 5 anni, con un picco nei primi 2 anni. Si manifesta con febbre prolungata e sintomi sistemici, con rischio di gravi complicanze come dilatazioni coronariche (13%) e aneurismi, che possono raggiungere il 20% se non trattata precocemente. Un’altra condizione da considerare è la MIS-C (malattia infiammatoria multisistemica), correlata all’infezione da SARS-CoV-2. A differenza della Kawasaki, qui il danno cardiaco si presenta più frequentemente con riduzione della frazione di eiezione che con alterazioni coronariche.
Anche le miocarditi pediatriche pongono sfide diagnostiche, richiedendo un approccio multimodale data la loro variabilità clinica. Il sintomo dello scarso accrescimento, soprattutto nei bambini sotto i 3 anni, può indicare uno scompenso cardiaco, spesso legato a cardiopatie congenite come l’ALCAPA o alla malattia reumatica. Infine, la sincope è un sintomo molto frequente: colpisce circa il 15% dei soggetti sotto i 18 anni, con un accesso in Pronto Soccorso nello 0,4–1% dei casi. Secondo una metanalisi su oltre 3.700 pazienti, nella maggior parte dei casi l’origine è vagale, mentre un’eziologia cardiogena è presente nel 5%.
Il Dr. Pucci ha chiuso la sessione con una panoramica sulla gestione dei pazienti con SCA che necessitano di chirurgia non cardiaca dopo un intervento di PCI. Questa situazione è piuttosto comune: tra il 7% e il 17% dei pazienti sottoposti a PCI si sottopone a chirurgia non cardiaca entro un anno. Il registro REAL conferma che l’1,6% necessita di un intervento entro un mese, il 5% entro sei mesi e il 10% entro l’anno. Il contesto clinico è complicato da fattori come uno stato infiammatorio persistente, ipercoagulabilità, la durata della DAPT e la completezza della rivascolarizzazione coronarica. Il punto critico riguarda la sospensione della DAPT, che deve bilanciare il rischio di sanguinamento durante l’intervento con quello trombotico legato alla recente angioplastica. Per orientare questa complessa gestione, il documento europeo SAS 2 ha proposto un approccio personalizzato che tiene conto del tempo trascorso dalla PCI, del tipo di stent, delle caratteristiche cliniche e angiografiche e dei rischi di sospensione precoce della terapia.
Per minimizzare il rischio ischemico nel periodo in cui la DAPT viene sospesa, si utilizza la “bridge therapy” con un antiaggregante parenterale a breve emivita. In questo ambito, il Cangrelor si è dimostrato particolarmente efficace. Lo studio CHAMPION-BRIDGE ha definito un dosaggio ottimale di 0,75 mcg/kg/min, che garantisce un rapido effetto antiaggregante reversibile. Il Cangrelor agisce in pochi minuti, con emivita di 3-5 minuti e recupero della funzione piastrinica entro un’ora dalla sospensione, offrendo un controllo fine del bilancio emostatico con una sorta di “anestesia piastrinica” controllata. Altri farmaci come Tirofiban ed Eptifibatide possono essere usati, ma il Cangrelor rimane la scelta preferita per la sua farmacocinetica favorevole e le evidenze specifiche nel contesto della bridging therapy.
