FOCUS TRATTAMENTO DELLE CORONAROPATIE NELLA DISFUNZIONE VENTRICOLARE SINISTRA

di Martina Milani

Come trattare la coronaropatia in presenza di disfunzione ventricolare sinistra? Terapia medica o rivascolarizzazione? E, se si decide di rivascolarizzare, meglio il by-pass aorto coronarico o l’angioplastica? Queste domande hanno animato il Focus, che si è tenuto nella Sala delle Conchiglie nel secondo pomeriggio del Congresso ANMCO 2023, moderato dai Dottori Domenico Gabrielli, Cosimo Napoletano e Francesco Musumeci e concluso con un’interessante discussione in tavola rotonda guidata dal Dottor Emanuele Tizzani. Il Dottor Roberto Caporale ha preso le parti del cardiologo interventista in una controversia con il cardiochirurgo, impersonato, in maniera imprevista, dal Professor Musumeci che è riuscito abilmente a portare interessantissimi spunti di riflessione. Si devono sostanzialmente distinguere due scenari clinici di disfunzione ventricolare sinistra ad eziologia ischemica: la sindrome coronarica acuta a presentazione con scompenso acuto/shock cardiogeno e il quadro di insufficienza cardiaca nel contesto di una sindrome coronarica cronica. Nel primo caso le risposte sono più semplici, dato che anche le evidenze sono più chiare: il paziente con STEMI e shock cardiogeno va trattato con angioplastica nel più breve tempo possibile; si potrà discutere, in caso di malattia multivasale, se il completamento della rivascolarizzazione debba essere percutaneo o chirurgico, anche se raramente la scelta ibrida è la prediletta. In caso di NSTEMI valgono le medesime considerazioni, a meno che l’anatomia sia sfavorevole al trattamento transcatetere: in tale contesto andrà considerato il by-pass anche in presenza di instabilità emodinamica. Vi è più incertezza per quanto riguarda il supporto al circolo in presenza di shock cardiogeno ischemico: se i risultati dello IABP-Shock II trial hanno portato le linee guida ESC a porre in classe III l’utilizzo routinario del contropulsatore in presenza di sindrome coronarica acuta, bisogna prendere atto che lo IABP è tutt’altro che scomparso dalla nostra pratica clinica, a riprova del fatto che qualche beneficio è comunque garantito. Ci sono anche dati che mostrano i vantaggi di tale supporto in presenza di complicanze meccaniche dell’infarto e altri che evidenziano una riduzione della mortalità nello shock ischemico in caso di impianto di IABP prima della PCI, rispetto al posizionamento successivo all’angioplastica. Pertanto, le medesime linee guida affermano che comunque l’utilizzo del supporto meccanico (contropulsatore, pVAD, ECMO) dovrebbe essere considerato in alcuni pazienti (classe IIa). Più aperta resta anche la discussione in caso di disfunzione ventricolare sinistra ischemica cronica (in pazienti sintomatici per angina o scompenso cronico e ancor di più nei pazienti asintomatici). Il Trial ISCHEMIA ha certamente portato alla ribalta la terapia medica nel contesto della sindrome coronarica cronica: in presenza di angina devono essere avviati betabloccante (ed eventualmente ivabradina, ranolazina e nitrati) associati agli altri tre pilastri della terapia dell’HFrEF. Anche lo Studio Syntaxes ha mostrato l’importante impatto prognostico del numero di principi attivi (in primis statine e antiaggreganti) avviati on top della rivascolarizzazione. Bisogna comunque riconoscere che, analizzando i sottogruppi dell’ISCHEMIA, i pazienti con disfunzione trattati conservativamente avevano peggior prognosi. Anche i risultati dello STICH trial hanno mostrato un vantaggio, a 10 anni, della rivascolarizzazione chirurgica nei pazienti con disfunzione ventricolare (superando l’eccesso di mortalità dei primi due anni attribuibile al rischio operatorio); tale vantaggio è tanto maggiore quanto minore è l’età del paziente. Pertanto, le linee guida concludono che la rivascolarizzazione dovrebbe essere considerata per il miglioramento dei sintomi anginosi non controllati dalla terapia medica (classe di raccomandazione IIa) e per migliorare l’outcome in pazienti molto selezionati, anatomia favorevole, stenosi > 90% prossimale in vasi di grande calibro (classe IIb), considerando attentamente le comorbidità, l’aspettativa di vita e le prospettive del paziente. Se si decide di rivascolarizzare, il by-pass dovrebbe essere considerato come prima scelta nei pazienti candidabili a chirurgia, soprattutto se diabetici, e l’angioplastica potrebbe essere considerata in alternativa sulla base della decisione dell’Heart Team. Va ricordato che spesso l’elevato Euroscore si associa ad alto Syntax Score; dunque, in questo caso devono essere prese in considerazione l’età e le preferenze del paziente, la presenza di lesioni severe e diffuse, per decidere eventualmente per il trattamento conservativo, essendo superiori i rischi ad un comprovato beneficio prognostico dell’angioplastica. Infatti, come ha evidenziato il recente Trial REVIVE BCIS 2 (condotto su 700 pazienti con FE < 35% e dimostrazione di vitalità in almeno 4 segmenti, considerati non rivascolarizzabili chirurgicamente) l’angioplastica non fornisce un vantaggio in termini di mortalità da tutte le cause e ricoveri per scompenso. È pur vero che si tratta di pazienti meno compromessi (elevata percentuale di soggetti in classe NYHA 1-2 e 2/3 dei pazienti senza angina) e pertanto i risultati sono meno generalizzabili. Tuttavia, l’assenza di beneficio dell’angioplastica in questi pazienti (e per contro i risultati di altri studi che hanno mostrato il vantaggio del by-pass anche in assenza di miocardio vitale) potrebbe far sorgere il dubbio sul fatto che riusciamo a stimare correttamente la vitalità e/o che i concetti di miocardio vitale e ibernato, da sempre dati per assodati, non siano un parametro adeguato per valutare l’opportunità della rivascolarizzazione.

Martina Milani