FOCUS CUORE E CERVELLO: LA TERAPIA INTERVENTISTICA DELL’ICTUS

di Martina Milani
La terapia interventistica cardiologica nel paziente con ictus.

L’eterno incontro-scontro tra cuore e cervello, che nel binomio di ragione e sentimento ha dato vita a celebri romanzi, è anche un tema prolifico nella letteratura scientifica ed è stato al centro del focus di questa seconda giornata congressuale, moderato dai dottori Alfredo de Nardo e Cosimo Napoletano, sulla terapia interventistica delle patologie cardiologiche che possono determinare ictus.

Uno dei protagonisti indiscussi in questo ambito è sicuramente il forame ovale pervio (PFO). Come mostrato dal dottor Gianluca Tomassoni, sono numerose le forme di stroke ischemico: il lacunare, quello conseguente a patologia dei grandi vasi (aterosclerosi, dissezioni, arteriti), l’ictus cardioembolico (di cui la fibrillazione atriale è la principale determinante), ed infine l’ictus criptogenetico (responsabile del 25% degli eventi ischemici cerebrali). Il 40% dei pazienti con ictus criptogenetico ha un PFO; tuttavia, sappiamo che esso è presente nel 25% popolazione generale. È quindi chiaro che esiste una relazione tra forame ovale pervio ed evento ischemico cerebrale, ma si pone il problema della selezione del paziente in cui correggere il difetto. Quindi per definire se l’eziologia è da attribuire al PFO, è fondamentale la valutazione interdisciplinare, ossia la stretta collaborazione con il neurologo.

Si tratta di fatto di una diagnosi di esclusione, pertanto devono innanzitutto essere messe in campo tutte le indagini diagnostiche che consentono di escludere le altre cause di stroke, secondo un algoritmo sistematico che comprende ad esempio esami ematochimici di screening trombofilico e per la diagnosi di vasculiti e il monitoraggio prolungato del ritmo cardiaco.

Il doppler transcranico e l’ecocardiogramma transtoracico (con eventuale ausilio di soluzione fisiologica agitata) sono gli esami che ci consentono di individuare la presenza di PFO (il primo ce lo fa sospettare, il secondo lo conferma).

Come già detto, tuttavia, anche se l’abbiamo identificato, è necessario il ragionamento clinico per porre indicazione a chiusura, poiché bisogna esser certi di aver escluso altre eziologie più comuni. È chiaro che l’età è un importante discriminante: nei soggetti giovani l’evento neurologico embolico sarà più probabilmente imputabile al PFO, mentre sopra i 65 anni – ma verosimilmente anche oltre i 55 – deve essere considerata innanzitutto la fibrillazione atriale come causa principale. In tal senso documenti di consenso – non ancora linee guida – impongono di considerare l’impianto di loop recorder in questi pazienti. Anche caratteristiche di neuroimaging fanno pensare al PFO come causa di ictus: singole lesioni corticali o scattering corticale multiplo, infarti di piccole dimensioni (il PFO filtra i trombi più grandi) assenza di occlusioni vascolari visibili all’angioRM, interessamento del territorio vertebro-basilare. È stato elaborato anche uno score (RoPE – Risk of Paradoxical Embolism) che aiuta nella selezione dei pazienti.

Esistono diverse modalità di chiusura del PFO, la cui scelta andrebbe sempre ragionata e pianificata prima della procedura, con un ecocardiogramma transesofageo (che non è quindi l’esame diagnostico, ma di planning pre-intervento): il grande entusiasmo di qualche anno fa per lo stitch device è stato ridimensionato per via del rischio di chiusura subottimale e di recidiva, ma si tratta di una tecnica che è comunque importante considerare, nei pazienti con anatomie favorevoli (ad esempio in assenza di shunt in condizioni basali, di aneurisma del setto interatriale e di large opening), per i vantaggi legati alla possibilità di evitare l’impianto di una protesi occluder.

La controparte del PFO, quando si parla di trattamento interventistico delle fonti cardioemboliche, sarebbe stata sicuramente l’auricola sinistra, assente per cause di forza maggiore legate all’alluvione.

Altro argomento della sessione è stato la patologia del microcircolo coronarico, tema estremamente attuale, seppure più difficilmente associabile alle problematiche neurologiche. Il dottor Filippo Ottani si è abilmente districato nell’arduo compito di esporre un argomento così vasto e complesso, in poco tempo.

Si tratta di un ampio spettro di alterazioni strutturali e/o funzionali del microcircolo, che determinano una limitazione del flusso coronarico e dunque ischemia miocardica (INOCA).

È un nuovo universo – in verità già intuito molti anni fa dal genio del professor Attilio Maseri – che si colloca in parallelo a quello tradizionale della patologia coronarica ostruttiva, ma è altrettanto importante, in quanto altrettanto incidente sulla prognosi e sulla qualità di vita del paziente.

Le alterazioni strutturali del microcircolo possono essere identificate con il test all’adenosina che abolisce la vasoregolazione e consente di comprendere se l’eventuale riduzione della riserva di flusso coronarico (CFR) e l’incremento delle resistenze del microcircolo (IMR) dipendono da fattori strutturali (rimodellamento microvascolare come ispessimento della parete dei vasi, fibrosi, rarefazione vascolare, infiammazione) e non funzionali. In secondo luogo, il test con acetilcolina consente di slatentizzare un’incrementata vasoreattività (delle coronarie epicardiche, se la somministrazione del farmaco ne determina riduzione di calibro, oppure del microcircolo, se vengono riprodotti sintomi e alterazioni ECG in assenza di modifiche del diametro delle arterie epicardiche).

A fronte di tutto l’armamentario diagnostico a nostra disposizione, è chiaro come l’emodinamista non possa più considerare concluso il proprio compito nel momento in cui non individua stenosi flusso limitanti, ma debba mettere in campo una serie di indagini invasive che permettono di arrivare al corretto inquadramento diagnostico del sintomo anginoso del paziente. A tal proposito è stato sviluppato un algoritmo diagnostico pubblicato European Heart Journal nel 2020 da Kunadian e mostrato nell’immagine seguente.

Certamente il limite all’implementazione di questo percorso è, da un lato, il dispendio di tempo che le indagini diagnostiche richiedono e, dall’altro, l’assenza di evidenze che la terapia mirata alla fisiopatologia (calcio antagonisti in presenza di spasmo e beta bloccanti in caso di alterazioni strutturali del microcircolo) modifichi la prognosi (ad ora solo lo studio CorMicA ha mostrato un beneficio sulla qualità di vita). Questi ostacoli non devono però scoraggiare, ma essere stimolo alla ricerca di soluzioni e nuove evidenze.

Martina Milani