CORSO AVANZATO: L’INQUADRAMENTO CLINICO DEL PAZIENTE IPERTESO – PARTE 1

di Francesco Lisi

Un taglio pratico è stato dato in sala Agorà per questo corso avanzato incentrato sull’ipertensione arteriosa, che si è svolto con la moderazione del Prof. Giuseppe Imperoli e del Dott. Alfredo Madrid. Interessante ed estremante pragmatica la relazione del Prof. Stefano Taddei che ha sfatato una serie di miti frutto di termini clinici comuni nel gergo comune ma scientificamente errati. L’ipertensione arteriosa è una condizione morbosa asintomatica e per poterla diagnosticare bisogna misurarla correttamente, soprattutto andrebbero esclusi tanti sintomi e/o disturbi che spesso vengono associati all’ipertensione. Inoltre, considerando che il circolo cerebrale non risente dell’ipertensione arteriosa, spesso il sintomo descritto dal paziente è esso stesso la causa del rialzo pressorio. Analizzando le linee guida si può subito notare che le definizioni di crisi ipertensiva, colpo di pressione o picco pressorio non esistono. Sicuramente reale è la considerazione del Prof. Taddei circa la difficoltà nel diagnosticare l’ipertensione arteriosa. Riscontrare un valore di pressione arteriosa alto non sempre indica un paziente iperteso, in quanto la misurazione isolata della pressione arteriosa risente di numerosi fattori di confondimento. Sempre molto critica è stata l’analisi circa l’accanimento nell’abbassamento della pressione arteriosa. Esso non è quasi mai una urgenza. Tuttavia, può esserlo per il rischio di evoluzione del quadro clinico per i danni su determinati organi bersaglio. Nell’analisi è stato anche indicato che soltanto poche condizioni possono essere annoverate tra le vere urgenze: l’Ipertensione accelerata o maligna e l’ipertensione arteriosa peri-operatoria o post-operatoria. Nella parte conclusiva una ampia attenzione è stata data al monitoraggio pressorio delle 24 ore (ABPM) ma che spesso non viene usato in maniera corretto. Infatti, vanno considerati solo i valori della PA media diurna o al massimo di quelle diurne e notturne, facendo sempre attenzione ad eseguire un esame con misurazioni valide maggiori del 70% e valutando anche quali siano state le sensazioni del paziente che possano alterare le misurazioni (Dolore da gonfiaggio del bracciale? Ha dormito la notte?). Nella seconda presentazione invece, il Prof. Stefano Masi si è confrontato con un tema spinoso: l’ipertensione resistente che va considerata tale quando si ottiene una misurazione ambulatoriale superiore ai 140/90 mmHg nonostante trattamento farmacologico ottimizzato ed una modifica dello stile di visita. Tuttavia, per quanto già detto, è altamente sfidante eseguire tale diagnosi. In primis per il problema della non aderenza alla terapia da parte del paziente sia in prevenzione primaria che in prevenzione secondaria. Infatti, l’analisi di alcuni studi mostrati durante la presentazione evidenzia che tale problema non riguarda una categoria farmacologica specifica, piuttosto tale criticità dipende molto dal numero dei farmaci che assume un paziente nel totale delle 24 ore. Secondo ruolo è svolto dalle caratteristiche farmacologiche dei farmaci somministrati, la cui combinazione è fondamentale soprattutto se fatta da farmaci complementari. La conclusione guarda al futuro: il Braxdrostat e Aprocitentan sono i farmaci tra poco sul mercato che promettono tanto per la cura dell’ipertensione arteriosa resistente. La dott.ssa Alessandra Violet Bacca, invece ha parato dell’ipertensione arteriosa secondaria. Essa è dovuta ad una causa primitiva identificabile e che può essere trattata in maniera specifica. Esse sono circa il 15% di tutte le forme. Tra queste l’iperaldosteronismo primitivo è la più frequente. E’ importante una diagnosi precoce in quanto permette una cura per lo più definitiva oppure consentire l’utilizzo di farmaci che possano tenere sotto controllo la patologia in maniera efficace. Sono stati presentati sia i sintomi più frequenti che devono far sospettare una forma secondaria, inoltre alcuni semplici esami come il dosaggio delle metanefrine/normetanefrine plasmatiche ed urinarie. Sicuramente da studiare e sospettarle nei pazienti più giovani (sotto i 40 anni) oppure pazienti con peggioramento acuto dell’ipertensione arteriosa. Un accenno è stato riservato anche ad altre forme quali il feocromocitoma e le forme da stenosi dell’arteria renala si nella forma ateromasia che fibrodisplasica. Nell’ultima relazione la Dott.ssa Simona Buralli ha parlato della determinazione del danno d’organo. Sicuramente quasi tutti gli organi possono essere coinvolti. In generale si può dire che il coinvolgimento può essere progressivamente asintomatico, sintomatico e con forme end stage. La classificazione del danno d’organo è fondamentale per la caratterizzazione del rischio cardiovascolare e quindi caratterizzante sulla prognosi. La relazione si è incentrata soprattutto sul danno d’organo a livello cardiaco. L’esito più frequente è la presenza dell’ipertrofia ventricolare sinistra, la quale è correlata ad una prognosi peggiore, soprattutto se il rimodellamento è di tipo concentrico. Il danno cardiaco può manifestarsi progressivamente anche con la disfunzione diastolica e lo scompenso cardiaco fino alla riduzione della frazione d’eiezione. La sessione si è conclusa con il ruolo dell’ateromasia coronarica e del danno renale come effetti dell’ipertensione arteriosa.

Francesco Lisi
Francesco Lisi