Nella Sala del Borgo si è tenuta una breve ma interessante Controversia sulla terapia della ipertensione arteriosa Resistente.
Il Dott. Verdecchia, clinico esperto in ipertensione arteriosa ci ha parlato dell’importanza della diagnosi eziologica corretta di ipertensione arteriosa e della terapia farmacologica.
Il primo step per valutare la terapia ottimale è identificare la causa di ipertensione arteriosa resistente, a volte causata anche dall’uso di alcuni farmaci cha hanno un effetto ipertensivante quali antinfiammatori, vasocostrittori e cortisonici. Esistono poi cause di pseudoresistenza, ad esempio una scorretta tecnica di misurazione con un bracciale pressorio troppo piccolo e stretto per la misurazione in pazienti obesi con braccia grandi sovrastima il valore pressorio, oppure una scarsa aderenza al trattamento. Nel primo anno di trattamento il 40% circa dei pazienti interrompe il trattamento. Inoltre, non ultimo esiste il famoso effetto camice bianco, per cui la paura di una reazione negativa aumenta i valori pressori in maniera involontaria ma costante (prima pubblicazione Mancia Lancet 1983). In caso di ipertensione resistente a terapia, nonostante la presenza di una terapia di combinazione è consigliabile: 1) Escludere cause secondarie quali iperaldosteronismo; 2) valutare il rapporto aldosterone e renina per escludere un iperaldosteronismo secondario, 3) usare in terapia un mineralcorticoide. Esistono inoltre delle buone norme comportamentali terapeutiche: la restrizione di sale <5 grammi die, un moderato uso di alcol e aumentare attività fisica, ridurre il peso corporeo. Nei casi resistenti a terapia ottimizzata di combinazione si può inoltre pensare alla terapia con denervazione renale o ad eventuale se necessario trattamento della stenosi renale. Spesso non viene data importanza al peso corporeo la cui riduzione negli obesi porta ad una riduzione della pressione di 2 millimetri di mercurio pe rogni kilogrammo perso.
La controversia si è tenuta con il Dottor Tavella, cardiologo interventista, che ha parlato di trattamento avanzato dell’ipertensione resistente, attraverso l’intervento di denervazione delle arterie renali.
L’intervento seppur invasivo è giustificato perché la pressione determina un incremento della mortalità ed è un fattore sinergico peggiorativo; chi arriva a 5 fattori di rischio ha una mortalità elevata, in prevenzione primaria la pressione ha un rischio aggiuntivo elevato.
Nel 2024 le linee guida hanno sancito il passaggio dell’intervento di denervazione renale dalla classe da 3c ad una classe di indicazione 2b; ovviamente viene indicato che il paziente deve essere inviato in centri dedicati ad alto flusso, con un consenso informato dedicato.
Il più importante registro GSR ha dimostrato come la denervazione sia efficace: dopo la denervazione i pazienti rimangono in un range di normalità nel tempo fino a 36 mesi, portando i MACE da 9 a 2, anche per minime riduzione di valori pressori.
Ovviamente la denervazione va attuata insieme alla terapia medica ottimale, ed escludendo prima le forme di ipertensione arteriosa secondarie, soprattutto l’ipertensione nefrovascolare. L’intervento di denervazione delle arterie renali funziona soprattutto nei pazienti con depressione della funzione renale, anche nei pazienti con filtrato inferiore a 20 e nei dializzati, in generale inoltre nei centri esperti si usa poco contrasto, circa 70 ml di contrato. Dopo la denervazione si ha una riduzione di 2.5 mmHg per ogni anno che passa dall’intervento. In conclusione è un intervento utile nelle forme di ipertensione resistente e anche in recenti metanalisi è stato valutato il beneficio di riduzione degli eventi cardiovascolari nel tempo.

Di Giannuario