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Cure palliative: è sempre questione di fine vita?

di Valentina Colombo
Le cure palliative in cardiologia non significano fine vita, ma miglioramento della qualità di vita. Un approccio integrato e precoce, sostenuto da una rete multidisciplinare e da solide basi etiche, può migliorare l’assistenza ai pazienti con patologie cardiovascolari avanzate, nel rispetto della loro dignità e delle loro scelte.

Le cure palliative non sono sinonimo di fine vita e non significano morte. In ambito cardiologico, rappresentano invece uno strumento utile per migliorare la qualità di vita dei pazienti e anche dei caregiver, che spesso devono sostenere un importante carico assistenziale. Le cure palliative, inoltre, possono avere un impatto positivo sugli stessi esiti clinici.

Diversi studi hanno evidenziato come sempre più pazienti non muoiano nel proprio domicilio, circondati dai familiari, ma in terapia intensiva, con cateteri venosi, vescicali ed inotropi ad alte dosi. Questo non rappresenta un accompagnamento naturale alla morte. Nonostante ciò, le cure palliative in cardiologia sono ancora fortemente sottoutilizzate, l’attivazione del percorso palliativo avviene spesso tardivamente o, in molti casi, è del tutto assente. In genere, il paziente non riesce nemmeno ad essere preso in carico. È quindi fondamentale adottare un approccio precoce e integrato, che preveda l’introduzione delle cure palliative fin dalle fasi iniziali del percorso di cura, attraverso una rete multidisciplinare che costruisca un piano assistenziale continuativo e condiviso. Questi concetti sono stati ben esplicitati dal Dott. Mancuso nella prima parte della sessione.

 

Come illustrato dalla Dott.ssa Cesaris, è necessario parlare di cure palliative anche in ambito cardiologico, poiché le patologie cardiovascolari continuano a rappresentare la prima causa di morte nel mondo, con circa 20 milioni di decessi ogni anno. I pazienti cardiologici presentano un carico sintomatologico elevato, del tutto paragonabile a quello dei malati oncologici. Il palliativista in cardiologia può operare in vari contesti: dalla terapia intensiva cardiologica ai reparti di degenza, ma anche in day hospital, ambulatorio, hospice o assistenza domiciliare. In ogni caso, l’attivazione del percorso di cure palliative avviene sempre a partire da un team multidisciplinare. Il paziente va valutato rispetto ai suoi bisogni, anche attraverso la conoscenza della sua storia biografica, per rispettare le sue volontà e ciò che per lui è importante. A partire da questa valutazione si definiscono obiettivi di cura, che comprendono sia aspetti clinici che desideri personali. Il colloquio con il paziente e con i suoi familiari riveste un’importanza centrale, anche per individuare il setting di cura più appropriato. Le cure palliative agiscono su diversi momenti del decorso della malattia, dai primi sintomi alla fase acuta, fino alla stabilizzazione e alle eventuali riacutizzazioni, affrontando anche la fatica fisica, la sofferenza psicologica e la depressione, per poi accompagnare verso la fase terminale, se presente. Va detto che, purtroppo, le risorse non sono sempre sufficienti per garantire la presenza del palliativista sin dal momento della diagnosi e lungo tutto il decorso della malattia. È quindi necessario un cambiamento culturale e organizzativo: occorre condividere e riconoscere precocemente gli eventi trigger che possano indicare il bisogno di cure palliative, e definire criteri di accesso attraverso strumenti valutativi condivisi. Obiettivo prioritario è evitare interventi clinici non coerenti con la volontà del malato e garantire al paziente di affrontare la malattia in modo più sereno, anche quando non sono più disponibili risorse terapeutiche. È essenziale, in questo senso, l’attivazione della rete di assistenza domiciliare e il coinvolgimento del medico di medicina generale.

 

Nella terza relazione, la Dott.ssa Degani ha approfondito il tema della bioetica come guida fondamentale per l’agire professionale. Ci sono diverse definizioni di bioetica. Secondo Potter, che per primo coniò il termine “bioetica” nel 1970, essa rappresenta un ponte tra il sapere biologico e quello umanistico, volto a garantire un rapporto armonico tra l’uomo e l’ambiente. Reich, nel 1978, la definisce invece come lo studio sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce dei valori e dei principi morali.

La bioetica è importante nella pratica clinica perché i professionisti sanitari si trovano oggi ad affrontare decisioni sempre più complesse, che coinvolgono non solo aspetti tecnici, ma anche profondi interrogativi esistenziali, come la nascita, la sofferenza, la malattia e la morte. A tutto ciò si aggiunge la crescente potenza della medicina, che da un lato offre nuove possibilità terapeutiche, ma dall’altro impone nuove responsabilità etiche. Anche il rapporto medico-paziente si è evoluto: si è passati da un modello paternalistico a uno in cui il paziente è soggetto attivo e consapevole delle decisioni che lo riguardano. Infine, la distribuzione delle risorse in sanità solleva ulteriori problematiche etiche, soprattutto in contesti di scarsità.

Nel contesto della pratica clinica quotidiana, i professionisti della salute si trovano spesso a dover prendere decisioni complesse in tempi rapidi. In queste situazioni, in cui le implicazioni etiche sono rilevanti e i valori in gioco molteplici, può essere difficile orientarsi. Proprio per rispondere a questa esigenza, i filosofi Tom Beauchamp e James Childress hanno proposto un modello di etica applicata noto come modello principialista. L’idea alla base è che, al di là delle divergenze tra le varie teorie morali, esista un terreno comune rappresentato da quattro principi fondamentali che possono guidare le scelte cliniche in modo condiviso e pragmatico:

  • Beneficenza: promuovere il bene del paziente e ridurre la sofferenza. In ambito sanitario, si traduce nella scelta di trattamenti che abbiano un impatto positivo per la persona assistita.
  • Non maleficenza: obbligo di non arrecare danno. Implica, ad esempio, l’interruzione di trattamenti non più necessari o l’evitare la somministrazione di terapie prive di evidenza scientifica.
  • Autonomia: rispetto della volontà e delle scelte del paziente, riconoscendone la capacità di autodeterminarsi.
  • Giustizia: equa distribuzione delle risorse e delle opportunità di cura. In un sistema sanitario come quello italiano, ciò significa garantire l’accesso alle cure a prescindere da etnia, religione o status sociale.

Questi principi hanno validità in prima istanza, ovvero sono universalmente rilevanti, ma non sono assoluti. In caso di conflitto tra principi, nessuno ha automaticamente priorità sull’altro: è necessario bilanciarli in modo ragionevole, tenendo conto del contesto clinico specifico. Per applicare concretamente il modello principialista, si utilizzano due strumenti metodologici: la specificazione che rende i principi più concreti e il bilanciamento che consente di mediare tra principi in conflitto, trovando il compromesso più eticamente sostenibile.

Questo modello è ampiamente diffuso nella pratica bioetica clinica, tuttavia, presenta anche alcune criticità, tra cui: il rischio di arbitrarietà nella ponderazione tra principi in conflitto e la mancanza di una riflessione antropologica profonda, che rischia di ridurre la persona a oggetto di valutazioni tecniche, trascurandone la dimensione esistenziale. Per rispondere a queste limitazioni, si è sviluppato un approccio alternativo e complementare: il modello personalista fondato sulla dignità della persona. Questo paradigma pone al centro il rispetto incondizionato della dignità umana, considerata il criterio etico fondamentale. L’obiettivo è promuovere una cura centrata sulla persona, intesa non solo come portatrice di bisogni biologici, ma come soggetto titolare di valori, relazioni, vissuti e significati.

 

Tutti questi temi sono stati ben affrontati nel caso clinico presentato dalla Dott.ssa Viola, riguardante un paziente con lunga storia di cardiopatia post-ischemica, multipli episodi di scompenso, grave disfunzione biventricolare e ricovero per storm aritmici recidivanti, non candidabile a terapie non convenzionali per l’insufficienza cardiaca. In questo contesto, la possibilità di migliorare la qualità dei giorni di vita restanti, la conoscenza delle volontà del paziente e della famiglia, e un supporto dei palliativisti nella comunicazione con i familiari hanno reso possibile un percorso di cura condiviso. La decisione di disattivare le terapie antitachicardiche prima del trasferimento in hospice è stata presa consapevolmente, anche se si tratta ancora oggi di un tema molto dibattuto e che spesso non viene effettuato per mancanza di strumenti e percorsi definiti.

 

Valentina Colombo