SIMPOSIO
STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO DI MORTE IMPROVVISA

di Alessandra Schiavo

Nonostante i notevoli progressi compiuti in ambito di prevenzione, diagnosi e trattamento delle malattie cardiovascolari, sono ancora molti gli interrogativi che ruotano attorno alla prevenzione e gestione della morte cardiaca improvvisa, topic di questa sessione, di grande interesse ed attualità, moderata dai Dottori Berrettini e Budano.

Apre i lavori il Dott. Gaetano Salvatore, con una presentazione incentrata sulla stratificazione del rischio di morte cardiaca improvvisa (MI).

La malattia coronarica resta la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa, mentre nel soggetto giovane la morte improvvisa sottende spesso una patologia aritmogena con caratteristiche di familiarità.

Il principale marker di MI ad oggi riconosciuto è la Frazione d’Eiezione (FE) tanto che un suo valore al di sotto del 35% resta la principale indicazione ad impianto di ICD in prevenzione primaria secondo le linee guida ESC, dopo almeno 3 mesi di terapia medica ottimale per lo scompenso cardiaco ed attendendo un periodo di almeno 40 giorni in caso di evento ischemico acuto.

Tuttavia, recenti studi clinici hanno messo in evidenza come la valutazione della sola FE sembri essere inadeguata per la stratificazione del rischio di MI.
È stata descritta infatti la possibilità di un valore di FE severamente depressa associata ad un rischio di MI relativamente basso, e viceversa, casi con FE>35% associati ad elevato rischio di morte improvvisa.

Una analisi post-hoc dello studio MADIT-II ha evidenziato come, nei pazienti con assenza di altri fattori di rischio associati alla FE severamente depressa (classe NYHA >2, età >70 anni, azoto ureico >26 mg/dl o creatininemia >1.3 mg/dl, durata del QRS >120 ms, fibrillazione atriale), che costituivano circa un terzo della popolazione studiata, la mortalità era dell’8% a 2 anni di follow-up e non differiva nel gruppo ICD rispetto al gruppo trattato con terapia medica.

Risultati simili sono stati osservati anche nello studio MUSTT in cui sono stati valutati indici di rischio differenti (storia di scompenso cardiaco, età, classe NYHA, valore di FE, tachicardia ventricolare non sostenuta, fibrillazione atriale, inducibilità di tachicardia ventricolare sostenuta): i pazienti con solo FE ≤30% e nessun altro fattore di rischio, presentavano un rischio a 2 anni di mortalità totale del 5%.

Da questi due studi possiamo dedurre che pazienti con un rischio di mortalità totale a 2 anni del 5-8% (annuo del 2.5-4%) hanno un presumibile rischio annuo di MI dell’1-2%, valori per i quali è ben difficile ipotizzare un beneficio dall’impianto dell’ICD.

Alla luce di tali evidenze, che tuttavia non sembrano essere state recepite dalle linee guida, insieme alla FE andrebbero considerati anche altri fattori di rischio aritmico per meglio selezionare i pazienti che possono beneficiare dell’impianto di ICD per la prevenzione primaria di MI.

La necessità di andare oltre la semplice valutazione della FE è stata condivisa anche dal Dott. Massimiliano Rizzo, che ha illustrato lo stato dell’arte sul ruolo dell’imaging integrato nella stratificazione del rischio di MI, con particolare risalto al ruolo RMN cardiaca nella valutazione della fibrosi cardiaca.

Nella cardiopatia dilatativa non ischemica la fibrosi, quando presente, appare per lo più all’interno dello spessore della parete miocardica (“midwall fibrosis”). Nella cardiopatia ischemica la fibrosi è invece presente in quasi tutti i pazienti, caratterizzata da un centro fibrotico con una zona eterogenea peri-infartuale, costituendo un facile substrato per la creazione di circuiti di rientro all’interno o intorno alle aree di fibrosi stessa.

Il Dott. Ennio Carmine Pisanò ha illustrato invece il ruolo del monitoraggio ECG grafico, riportando come esempio uno screening annuale di Holter ECG-24 h sia efficace nelle displasie aritmogene del ventricolo destro per identificare pazienti a maggior rischio di MI. Limiti del monitoraggio ECG sec. Holter è chiaramente la sua ridotta durata (24-48 ore), ma esistono device che consentono registrazione più prolungata nel tempo (“ECG patches”). A tal proposito, i loop recorder sono fondamentali per un monitoraggio di lungo termine, il Dott. Pisanò che ha dato anche risalto ai nuovi dispositivi tecnologici oggi a disposizione come smartwatch o smartphone che possono consentire un affidabile monitoraggio di lunga durata e che, in una prospettiva futura, possono rivelarsi mezzi diagnostici alternativi altamente promettenti nel rilevare precocemente le aritmie, immaginando di poterli dotare di un sistema di monitoraggio da remoto per  migliorare così l’assistenza sanitaria.

Il monitoraggio da remoto dei dispositivi endocardici impiantabili nei pazienti con scompenso cardiaco è già realtà e si è dimostrato estremamente utile nell’ottimizzazione della terapia medica e nella prevenzione delle ospedalizzazioni (citati a tal proposito gli studi MultiSENSE e SELENE-HF study).

Il Dott. Pisanò ha infatti ricordato come la maggior parte delle MI non sono veramente “improvvise” ma spesso sono precedute da segni/sintomi premonitori che, insieme alle informazioni provenienti dalla tecnologia oggi a disposizione della medicina, bisogna saper interpretare e non sottovalutare.

Chiude questa interessante sessione la dr.ssa Ilaria Rigato, illustrando il ruolo della genetica nella stratificazione del rischio della MI. Le diverse mutazioni genetiche possono associarsi infatti ad un diverso rischio aritmico quando parliamo di cardiomiopatie. Esempio di ruolo prognostico del test genetico è offerto dalla sindrome del QT lungo: la presenza di mutazioni del canale del potassio (LQT1 e 2 syndrome) è associati ad un minor rischio di mortalità rispetto alla mutazione del canale del sodio (LQT3 syndrome).

Esistono mutazioni patogene, benigne e le cosiddette VUS (varianti di incerto significato): fondamentale è la collaborazione tra genetista e clinico per la corretta interpretazione dei risultati e la loro contestualizzazione nel quadro clinico/anamnestico.

Concludendo, la Dott.ssa Rigato ha tenuto a sottolineare come il test genetico non sia sempre dirimente e che anzi a volte può essere fonte di confusione, dunque deve sempre essere supportato da un forte sospetto clinico e da un’ anamnesi familiare approfondita, con un approccio multidisciplinare e un attento counselling al paziente.

 

Alessandra Schiavo