Il fulcro dell’intera sessione si è basato sulla classificazione SCAI, sulla diversità dell’approccio diagnostico e terapeutico che bisogna attuare in base alla tipologia di paziente e alla gravità del quadro clinico.
Il Dottor Manca ha aperto la sessione incentrandosi sull’importanza della selezione dei pazienti a rischio e sulla necessità di uno score che sia tarato in modo specifico sullo shock cardiogeno. Uno score ideale dovrebbe essere efficace al momento del ricovero quanto durante tutta la degenza intraospedaliera per intercettare precocemente variazioni cliniche e favorire quindi la scelta della strategia ottimale di trattamento. Nella gestione dello shock cardiogeno è necessario partire dal presupposto che non tutte le tipologie di shock sono uguali con un ventaglio di diverse presentazioni cliniche ed emodinamiche che ne influenzano il successivo approccio.
Un punto di snodo fondamentale è stato rappresentato dall’introduzione della classificazione SCAI che, prendendo in considerazione gli aspetti clinici, emodinamici e laboratoristici, rappresenta un importante predittore di mortalità nei vari spettri di presentazione dello shock cardiogeno. Utilizzando le lettere dell’alfabeto, da A ad E, individua tipologie di pazienti sempre più gravi. Seppur in molti studi sullo shock cardiogeno non vengano presi in considerazione i primi due stadi, SCAI-A e SCAI-B, viene sottolineato come un paziente può essere normoteso, normoperfuso e non presentare segni clinici di shock cardiogeno al momento della nostra valutazione, ma essere comunque un paziente a rischio di evoluzione verso un grado più alto. E’ importante individuare questa tipologia di pazienti, monitorizzare con una certa frequenza i loro parametri clinici ed emodinamici ed ottimizzare la terapia medica. In passato i registri sullo shock cardiogeno si basavano tutti su dati di infarti miocardici acuti complicatesi con shock cardiogeno. La novità dei nuovi registri è data proprio dalla inclusione di un’altra tipologia di pazienti, preponderante e rappresentata fino al 70% dei casi, in cui la causa di shock cardiogeno è l’ADHF (acute decompensated heart failure). Si tratta di casi in cui si assiste dapprima ad una progressiva congestione e ad una successiva ipoperfusione ed ipotensione. Il Dottor Trambaiolo sottolinea l’importanza della distinzione tra ipoperfusione ed ipotensione, specificando come esistano pazienti normotesi, ma ipoperfusi, e pazienti ipotesi, non ipoperfusi. Vengono illustrati parametri ecocardiografici come il VTI aortico e nuovi strumenti di notevole importanza, disponibile grazie ai metodi di misura non invasiva, come il disaccoppiamento ventricolo-arterioso (VAC) che può costituire un parametro interessante per guidare la terapia e la risposta ad essa.
Nella gestione pratica di un paziente in shock cardiogeno ha preso piede il concetto, già utilizzato in altre tipologie di shock, di golden hour, ripreso successivamente anche dal Dottor Casella. Il posizionamento di una linea arteriosa e di un accesso venoso centrale insieme alla valutazione dei parametri ecocardiografici consentono di eseguire una corretta monitorizzazione iniziale del paziente, di captare precocemente una non risposta alla terapia iniziale e di evitare lo scivolamento in classi di shock più severe.
Il Dottor Farina prosegue con un focus sull’assistenza ventilatoria come componente fondamentale dello shock cardiogeno. Gli obiettivi principali sono migliorare gli scambi e il rapporto tra la delivery di ossigeno (DO2) e la VO2, valutabili non solo con emogas arterioso e monitoraggio della Sc(v)O2 ma anche clinicamente con l’adattamento del paziente alla ventilazione.
Una zona grigia è rappresentata dal timing di weaning dal supporto ventilatorio da attuare quando viene superata la soglia di safety screening iniziando gradualmente e reintroducendo il supporto se si dovessero presentare segni di fallimento.
Introduce la seconda sessione in Dottor Fasolino presentando la tipologia di pazienti da inquadrare come SCAI C, ovvero con ipotensione ed ipoperfusione periferica necessitanti di trattamento tempestivo, ribadendo ancora una volta l’importanza delle rivalutazioni seriate in quanto pazienti che possono facilmente scivolare in una categoria SCAI-D. Viene sottolineata l’importanza di un approccio mutiparametrico e multisistematico. Vengono presentati alcuni dati dell’ALT-SHOCK trial che evidenziano l’efficacia dell’utilizzo del sodio-nitroprussiato in combinazione con inotropi nel ridurre l’end point-primario di mortalità durante la degenza in unità coronarica in un setting di pazienti con elevate pressioni di riempimento ventricolare sinistro e dilatazione ventricolare.
La Dottoressa Valente chiarisce come i pazienti classificabili come SCAI-D siano molti di più di quanto si possa pensare. A differenziare un paziente classificabile come SCAI-D da uno classificabile come SCAI-C è proprio la persistenza di ipoperfusione e ipotensione, nonostante una terapia con supporto inotropo adeguato, alla rivalutazione oraria del paziente. Questo rappresenta un punto di snodo decisionale importante per capire quando il paziente necessita di un supporto meccanico al circolo che, viene sottolineato più volte durante tutte le presentazioni, non deve essere assolutamente ritardato. Vengono a questo punto differenziati shock a dominanza ventricolare sinistra, ventricolare destra o biventricolari e le tipologie di assistenza al circolo più adeguate per ogni categoria. Per quanto riguarda gli shock dovuti a disfunzione prevalentemente sinistra è stato dimostrato come le pompe microassiali a flusso continuo siano le più vantaggiose con un unloading diretto del ventricolo e un miglioramento della perfusione coronarica. Come invece ci illustra il Dottor Montalto nella valutazione del ventricolo destro nello shock cardiogeno, risulta essere primariamente importante distinguere una disfunzione primaria a carico del ventricolo destro da una disfunzione ventricolare destra secondaria ad un failure del ventricolo sinistro. Anche in questo caso abbiamo molte armi nell’ambito del supporto meccanico al circolo che può essere più o meno invasivo comprendendo anche dispositivi impiantabili chirurgicamente e dispositivi di assistenza combinati.
A concludere il master ANMCO di questa prima giornata c’è la Dottoressa Alice Sacco che ci illustra i dati di mortalità nel trial Alt-Shock dei pazienti in categoria SCAI-E, che risulta essere > 50%. Si prosegue spiegando quanto sia difficile parlare di svezzamento da supporti meccanici al circolo nei pazienti con SCAI-E. Infatti, più che lo svezzamento, l’obiettivo dovrebbe essere quello della de-escalation precoce e, solo qualora il paziente possa essere riclassificato come SCAI-D o, ancor meglio, come SCAI-C, si potrà tentare uno svezzamento completo. Gli svantaggi di mantenere a lungo supporti meccanici al circolo come l’ECMO risultano in un aumento delle complicanze e della mortalità intraospedaliera nonché in un peggior outcome di questi pazienti quando candidati e trattati con terapie non convenzionali.
In questo setting di pazienti è fondamentale l’expertise del centro, viene quindi sottolineata l’importanza del creare una rete per lo shock cardiogeno che consenta ai centri spoke di riferire i pazienti, qualora necessario, a centri Hub e questo è vero soprattutto per pazienti con ADHF che potrebbero beneficiare da trattamenti tempestivi ed essere candidati a terapia non convenzionali, purché non vengano centralizzati troppo tardi.
