SIMPOSIO SHOCK CARDIOGENO

di Martina Milani
Una sfida ancora aperta, sotto molti punti di vista.

Nella terza e ultima giornata del 54° Congresso ANMCO si è tenuto un interessante simposio, moderato dai dottori Antonio Cirò e Loris Roncon, incentrato sullo shock cardiogeno.

Il dottor Gianni Casella ha aperto la sessione concentrandosi sul problema del corretto inquadramento diagnostico e della stratificazione prognostica del paziente che si presenta con un quadro di shock. “Fenotipizzare” è una delle chiavi per raggiungere questo obiettivo. Infatti, se il comune denominatore è l’ipoperfusione, essa si può declinare in diversi scenari clinici che la storica classificazione di Forrester – sensibile ma non specifica – non riesce a intercettare in maniera accurata. Una volta riconosciuta la condizione di shock (cosa non sempre scontata, soprattutto nelle fasi precoci), bisogna comprenderne la causa il più presto possibile, trattandosi di una condizione tempo dipendente, e si può dire che con l’ausilio di ECG, ecocardiogramma ed esami ematochimici riusciamo a farlo abbastanza agevolmente. Ciò che ancora dobbiamo imparare è individuare dei sottotipi di pazienti che condividono un comune profilo fisiopatologico, clinico e biochimico e che, pertanto, hanno prognosi simile e maggiore probabilità di rispondere ad un trattamento. Sarà solo allora che, probabilmente, riusciremo a superare lo sconforto dei risultati neutri dei trial in questo contesto, dovuti all’eterogeneità della popolazione a cui vengono applicati.

La classificazione SCAI è stata senza dubbio una svolta importante nel tentativo di predire la prognosi, ma non è sufficiente: occorre una valutazione multidimensionale che prenda in considerazione il tipo di disfunzione (sinistra/destra isolate, biventricolare), la componente infiammatoria, l’aumento o la riduzione delle resistenze sistemiche, la compromissione renale, il profilo metabolico (danno epatico e insufficienza multiorgano), la presenza di eventuali risk modifier (come l’età e la condizione post-arresto cardiaco). Interessantissimo l’innovativo approccio presentato nel lavoro di Zweck del 2021 in cui tramite intelligenza artificiale vengono ricavati tre profili omogenei (il classico non congesto, il cardiorenale e il metabolico) che stratificano la prognosi indipendentemente dall’eziologia e in maniera trasversale nei diversi stadi SCAI.

Le sindromi coronariche acute sono la prima causa di shock cardiogeno. Il 5-10% dei pazienti con infarto miocardico sviluppa shock e questa condizione traina la mortalità intraospedaliera (che raggiunge il 40-50%). L’unica terapia efficace per interrompere il circolo vizioso è la rivascolarizzazione che, come mostrato dallo SHOCK trial, è uno dei pochi interventi che può migliorare la prognosi nel paziente instabile, ricordando che, secondo i risultati del CULPRIT-SHOCK trial, la rivascolarizzazione completa non conferisce alcun beneficio (classe III nelle linee guida ESC).

Tuttavia, una volta riaperta la coronaria, come sosteniamo il circolo nell’attesa che il miocardio stunned recuperi funzione? Come sottolineato dal dottor Giorgio Caretta, è difficile rispondere secondo i canoni della medicina basata sulle evidenze, non essendoci trial randomizzati positivi in questo ambito.

Gli inotropi devono essere usati con cautela, dal momento che dati osservazionali hanno mostrato che la mortalità aumenta se le dosi sono elevate. I supporti meccanici che decaricano il ventricolo sinistro potrebbero essere un’ottima alternativa, al momento solo in linea teorica poiché, anche in questo caso, mancano dati definitivi. Il contropulsatore è il supporto più semplice e l’unico per cui è disponibile un trial randomizzato (IABP-Shock 2 trial), seppur criticato sotto vari punti di vista. Di riflesso, dovrebbe aumentare l’utilizzo dei pVAD a proposito dei quali, comunque, le evidenze restano molto ridotte. È sicuramente difficile costruire un trial per lo shock cardiogeno, per diversi motivi, legati ad esempio alla complessità della selezione e dell’arruolamento del paziente critico e all’elevato tasso di crossover. Tuttavia, si tratta del miglior metodo che abbiamo a disposizione per rispondere ai quesiti che ci poniamo, pertanto non ci si deve scoraggiare e si deve lavorare continuamente per disegnare studi sempre migliori. A tal proposito siamo in attesa dei risultati dei trial DANGER SHOCK, PROTECT IV e STEMI DTU.

Infine, la relazione del dottor Giuseppe di Tano si è incentrata sull’altra causa importante di shock cardiogeno, l’ADHF (acute decompensated heart failure o, secondo una recentissima definizione, “actively deteriorating” heart failure, ad indicarne la caratteristica traiettoria di malattia, subdola e infida: lentamente – spesso a seguito di una causa scatenante come un’infezione – l’equilibrio labile viene meno e si assiste ad una progressiva congestione che poi porta a ipoperfusione ed infine a ipotensione, in modo del tutto contrapposto allo shock ischemico in cui la repentina perdita di portata causa ipotensione, ipoperfusione e solo al termine congestione).

Sebbene le linee guida distinguano i quadri di scompenso da quelli di shock cardiogeno ADHF, non è nella pratica così semplice separarli e, anzi, capita che il paziente scivoli dall’una all’altra condizione senza che il medico se ne accorga. Si deve ricordare che la pressione arteriosa non è un buon indicatore di perfusione, tant’è che esistono casi di pazienti normotesi, ma ipoperfusi, e pazienti ipotesi, non ipoperfusi. Si pensi all’insufficienza cardiaca avanzata, in cui il quadro di bassa portata cronica non si associa a ipoperfusione grazie a meccanismi di compenso. È chiara l’importanza di attenzionare questi casi, tramite l’utilizzo di red flags, per mettere in atto un trattamento più aggressivo, onde evitare che il minimo evento stressante li faccia precipitare in una condizione irreversibile.

È chiaro che, per gestire condizioni così complesse, l’expertise è fondamentale ma, data la scarsa incidenza della condizione, l’unico modo per garantirlo è la centralizzazione in ospedali Hub, nel contesto di una rete per lo shock cardiogeno, che purtroppo in Italia siamo ancora lontani dal realizzare, almeno in forma istituzionalizzata. E questo è importante soprattutto per l’ADHF, in cui il paziente deve essere riferito a centri di terzo livello in grado di proporre terapie sostitutive cardiache, mentre lo shock ischemico può essere gestito anche in ospedali di secondo livello in cui sia garantito il servizio di emodinamica h24 e sia possibile posizionare un contropulsatore (o eventualmente un Impella).

Ultima nota è che spesso il paziente con scompenso viene gestito in ambienti non cardiologici, in cui la sensibilità nel riconoscere l’instabilizzazione emodinamica è inferiore; questo ha un importante impatto sulla prognosi, poiché spesso questi pazienti sono individuati tardivamente. Servirebbe formare figure specializzate come l’intensivista che sappiano riconoscere in tempo il paziente subdolamente critico, con un’attenzione anche al paziente anziano e/o con comorbilità, che il rianimatore escluderebbe dal trattamento intensivo ma che, con attenzione ad alcuni dettagli emodinamici e metabolici, potrebbe beneficiare di interventi “minori”, ma che potrebbero consentirgli di superare la fase critica.

Martina Milani