MINIMASTER
INSUFFICIENZA CARDIACA AVANZATA: UPDATE 2022

di Martina Milani
L’insufficienza cardiaca avanzata non è più una questione per pochi eletti.

Pronti? Via! I lavori del 53° Congresso Nazionale sono ufficialmente iniziati e nella Sala del Parco si è entrati immediatamente nel vivo con l’interessantissimo Minimaster sull’insufficienza cardiaca avanzata, moderato dai dottori Marco Corda, Giovanni Tortorella, Aldo Domenico Milano e Andrea Montalto.

Con il termine insufficienza cardiaca avanzata si definisce una condizione di severa disfunzione cardiaca, caratterizzata dalla persistenza e/o progressione in senso peggiorativo dei sintomi (inquadrabili come classe NYHA III avanzata-IV e caratterizzabili, più in dettaglio, in uno dei 7 profili INTERMACS) e del grado di disfunzione, nonostante la corretta applicazione delle terapie raccomandate.

Non esiste tuttavia un cut-off preciso che separi le fasi evolutive della malattia. E questo rende arduo il compito del cardiologo che deve decidere quando riferire un paziente al Centro terziario per valutarne la candidabilità a terapie non convenzionali.

Il dottor Corda, nella sua relazione, si è occupato proprio di questo snodo cruciale, ossia dell’individuazione precoce dei pazienti apparentemente stabili (INTEMACS 5-7) che in realtà celano elementi di rischio di evoluzione sfavorevole. Riconoscere precocemente tali red flags è indispensabile per impattare sulla prognosi del paziente. L’acronimo I NEED HELP (necessità di supporto inotropo, livelli di NTproBNP persistentemente elevati, peggioramento della funzione d’organo epato-renale, FE inferiore al 20%, più di una ospedalizzazione per scompenso negli ultimi 12 mesi, pattern aritmico ventricolare, stato di congestione persistente e necessità di titolazione del diuretico, ipotensione, impossibilità di titolare i farmaci dell’insufficienza cardiaca) può aiutare a ricordarle.

Uno dei criteri per definire avanzata l’insufficienza cardiaca è la severa riduzione della capacità di esercizio, espressa come distanza percorsa al test del cammino (<300 m) o picco del consumo di ossigeno al test cardiopolmonare (<12-14 ml/kg/min). Tuttavia, come evidenziato dal professor Agostoni, il consumo di ossigeno da solo non è sufficiente nello stratificare adeguatamente la prognosi; l’integrazione con altri parametri (VE/VCO2 slope, frazione di eiezione, filtrato glomerulare, valori di emoglobina e sodiemia) nel MECKI score e nel MECKI 2.0, consente invece di definire un rischio personalizzata sul singolo paziente.

Una volta riconosciuto il paziente con insufficienza cardiaca avanzata, quali armi abbiamo a disposizione? Il dottor Marco Marini ha sottolineato come ci sia un timing per ogni terapia, che non è fisso, ma deve essere guidato dalla fisiopatologia. Una medesima scelta potrebbe non essere applicabile in una fase e diventarlo successivamente (ad esempio la titolazione della terapia medica potrebbe essere attuabile solo dopo correzione percutanea dell’insufficienza mitralica). Il paziente deve pertanto essere rivalutato continuamente con la massima attenzione. Da un lato bisogna agire su più fronti e in più tempi, senza lesinare nell’implementazione di tutte le terapie proponibili. Dall’altro non dobbiamo dimenticare che alcuni farmaci (tra gli altri Levosimendan e SGLT2i) migliorano i sintomi, ma non arrestano il decorso della malattia e dilazionando il referral, solo perché il paziente è clinicamente stabile, si rischiano ritardi che possono costare caro.

Più nel dettaglio, il dottor Attilio Iacovoni si è occupato di terapia farmacologica. Quasi un paradosso, si potrebbe pensare, dal momento che, per definizione, l’insufficienza cardiaca avanzata è una condizione in cui la terapia convenzionale non è più efficace. Al di là dei 4 pilastri, che comunque dovrebbero già essere implementati prima di arrivare allo stadio avanzato di malattia, si stanno facendo strada due novità: Vericiguat e Omecamtiv. Il primo ha dimostrato un beneficio su endpoint hard in pazienti frequent flyer e non determina ipotensione, peggioramento della funzione renale e iperkaliemia, i tre principali effetti limitanti la titolazione delle terapie. Omecamtiv è un inotropo, attivatore della miosina, che ha mostrato effetti positivi in pazienti instabili e ha efficacia tanto maggiore quanto minore è la frazione di eiezione; da sottolineare tuttavia la sua inefficacia in presenza di fibrillazione atriale.

A seguire, la relazione del dottor Giovanni Battista Forleo ha evidenziato le proposte che sul fronte elettrofisiologico si stanno facendo strada nel trattamento dell’insufficienza cardiaca: sistemi di ottimizzazione della resincronizzazione, la Cardiac Contractility Modulation (che incrementa la disponibilità di calcio intracellulare e influenza l’espressione genica), la stimolazione barorecettoriale carotidea e quella non invasiva del vago (che riequilibrano la bilancia simpato-vagale), la stimolazione del nervo frenico in presenza di apnee centrali del sonno.

Il gold standard della terapia dell’insufficienza cardiaca avanzata resta comunque il trapianto cardiaco. Come evidenziato dal dottor Francesco Musumeci, la scelta tra assistenza meccanica e trapianto dovrebbe essere primariamente rivolta a quest’ultimo, considerando l’opzione LVAD come bridge to transplant, in caso di instabilizzazione o in presenza di controindicazioni temporanee all’inserimento in lista d’attesa, oppure come destination therapy.

La ridotta disponibilità di donatori rende indispensabile la corretta allocazione dell’organo e quindi l’adeguata selezione del ricevente. Il dottor Vincenzo Polizzi ha focalizzato l’attenzione sullo screening “cardiaco”, comprendente valutazione funzionale con test cardiopolmonare e cateterismo cardiaco, e su quello “extracardiaco”, mirato a evidenziare eventuali controindicazioni quali neoplasie, infezioni, iperimmunizzazione, insufficienza d’organo. Va ricordato che la disfunzione epato-renale, secondaria a insufficienza cardiaca, è generalmente reversibile e determina un incremento del rischio operatorio, ma non deve essere interpretata come criterio di esclusione dalla lista d’attesa.

Se da un lato, in Italia, la mortalità a un anno dal trapianto è più elevata che in altri Paesi e non si è ridotta negli ultimi in 20 anni, bisogna riconoscere che la qualità di vita dei pazienti che sopravvivono è soddisfacente (solo il 4% non riprende l’attività lavorativa). Come ribadito dalla dottoressa Serafina Valente, il trapianto è un dono prezioso e richiede anche un significativo impegno di risorse. Pertanto, non solo la selezione del ricevente deve essere accuratissima, ma anche il follow up va essere seguito con estrema responsabilità. Ed essendo sempre più numerosi i pazienti trapiantati che sopravvivono a lungo, qualsiasi cardiologo, anche se non lavora in un Centro trapianti, potrà trovarsi a gestire tale responsabilità.

È quindi fondamentale conoscere i cardini del follow up del paziente trapiantato: dosaggi, effetti collaterali e interazioni degli immunosoppressori, saper sospettare il rigetto (il cui gold standard diagnostico resta la biopsia endomiocardica, anche se si sta facendo strada la “biopsia liquida”, basata sul dosaggio del DNA del donatore nel sangue del ricevente), tener presente il problema della coronaropatia del graft e i rischi infettivo e neoplastico.

Parlando di dispositivi di assistenza meccanica long term, bisogna tener presente che la sopravvivenza nei Centri con elevata esperienza supera l’80% a un anno (a fronte di una mortalità del 50% nei pazienti non candidati a terapie avanzate). Il fabbisogno di dispositivi di assistenza meccanica, in Italia, è stimato in 16 impianti per milione di abitanti, ma esiste un gap importante tra gli impianti eseguiti e quelli necessari e c’è un grade divario rispetto al resto dell’Europa e agli Stati Uniti. Forse che il mondo cardiologico italiano ancora crede poco nel beneficio dell’assistenza meccanica? È questa la provocazione lanciata dal dottor Manlio Cipriani.

Inoltre, vista l’aumentata sicurezza delle macchine disponibili, come prospettiva futura, può e deve essere considerata la possibilità di estendere l’indicazione ai soggetti con più di 65 anni, come destination therapy.

La selezione del paziente resta indispensabile. In aggiunta a criteri di screening simili a quelli per candidabilità a trapianto, deve essere considerata la presenza di disfunzione ventricolare destra, che ancora dobbiamo imparare a riconoscere e a predire, identificando parametri di funzione contrattile indipendenti dalle condizioni di pre e postcarico, Attualmente vengono utilizzati parametri emodinamici (come il PAPi) ed ecocardiografici (come lo strain del ventricolo destro e lo studio della riserva contrattile con dobutamina).

Ma come deve essere gestito il paziente, una volta impiantato il dispositivo di assistenza? Il dottor Enrico Perna ha sottolineato che “il grosso della partita” si gioca nell’immediato post-operatorio, fase in cui è necessaria la sinergia tra rianimatore, cardiochirurgo e cardiologo. Deve infatti essere trovato un equilibrio tra ventricolo sinistro (che viene decaricato, ma con latenza di giorni e settimane e mai in maniera completa) e ventricolo destro (che lavora con un precarico aumentato e contro resistenze che non si normalizzano immediatamente dopo l’impianto). È fondamentale, pertanto, utilizzare inotropi e inodilatatori, come adrenalina e milrinone, unitamente all’ossido nitrico inalatorio, aumentare gradualmente lo speed della macchina, mantenere l’euvolemia ed essere pronti ad utilizzare dispositivi temporanei di assistenza ventricolare destra già nelle prime 12-24 ore. Una volta superata la fase acuta post-impianto, la gestione cronica deve mirare a un’attenzione quasi maniacale nel preservare le sezioni destre e a ottimizzare le sinistre, implementando comunque la terapia la terapia dell’insufficienza cardiaca, nonostante la macchina.

Infine, il dottor Vittorio Palmieri ha focalizzato l’attenzione sui pazienti con cuore artificiale totale, una realtà ancora di nicchia, ma con potenziale implementazione nel futuro. I dispositivi disponibili sono Syncardia (dotato di un meccanismo pneumatico e di 4 valvole meccaniche) e Carmat (con meccanismo elettromeccanico e valvole biologiche). Gli obiettivi e i fattori critici per il follow up di questi pazienti sono l’ottimizzazione emodinamica, la gestione dei rischi emorragico (ricordiamo che sono pazienti antiaggregati e scoagulati), trombotico e infettivo, la gestione dell’anemizzazione evitando il più possibile le trasfusioni (connesse a un rischio di iperimmunizzazione), la riabilitazione. Piccola postilla finale, nella gestione del paziente portatore di TAH incosciente non ha alcuna utilità praticare il massaggio cardiaco, non devono essere somministrati vasopressori o adrenalina e deve essere limitato l’utilizzo di cateteri centrali.

Martina Milani